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Jón Kalman Stefánsson, Luce d’estate ed è subito notte

Pubblicato il 28 settembre 2013 su La Balena Bianca.

Di rado si trova nel caso un barlume di senso e la nostra vita è dunque poco più di un errare senza meta, questa vita che a volte sembra poter andare per ogni dove e poi s’interrompe in mezzo a una frase — forse è proprio per questo che vogliamo raccontarti la storia del nostro paese, e delle campagne intorno.

 Luce d’estate ed è subito notte ritrae la vita di un villaggio islandese affacciato sui fiordi occidentali: quattrocento abitanti, altrettanti o poco più nel contado, la Cooperativa, il Magazzino, il Deposito, la Latteria, il chiosco che è anche benzinaio e il prefetto che ospita l’ufficio di polizia nel garage…

La struttura narrativa ricorda quelle opere statunitensi della prima metà del ‘900, come Winesburg, Ohio o I pascoli del cielo, che ritraggono un piccolo centro agricolo mediante una ghirlanda di racconti contenenti ciascuno un episodio, un personaggio, una famiglia, un tassello di un mosaico composito e corale. Microcosmi archetipici, e al contempo almanacchi di coordinate geografiche e storiche precise.
Il romanzo è ambientato all’inizio di questo secolo, e non mancano accenni alla vita di quel periodo: la moda del fitness di metà anni ’90, che provocherà non poco scompiglio nella vita coniugale del villaggio; oppure l’onnipresenza nelle campagne del partito progressista, “il nostro inizio e la nostra fine, credevamo che niente sarebbe mai cambiato, ma ci sbagliavamo clamorosamente”. L’autore descrive una dimensione che va scomparendo, come spiega la traduttrice Silvia Cosimini in una spigliata videointervista per Rai Educational, e gli angoli della narrazione mostrano i segni del cedimento. Negli intermezzi corsivi inframezzati ai capitoli, in particolare, la voce narrativa è insinuata en passant da sottili strali, come quello allo strapotere statunitense: “conservatori, ottusi e bellicosi, ciechi alle sottili trame della vita, al futuro minacciosamente fragile della terra. Ma noi li esaltiamo, invece di combatterli”. Tuttavia le denunce del rammollirsi moderno non possono a loro volta evitare di volgersi al lirismo:

Viviamo bene eppure non stiamo bene, perché che cosa dobbiamo farcene di tutti questi giorni, della vita, che fatica scoprirlo, perché viviamo?

 Perché viviamo? La questione centrale del romanzo rimane spesso irrisolta per i suoi personaggi, specialmente se a chiederlo è una vecchia zia in punto di morte che spira prima di ricevere – o di dare? – risposta.
Il testo brulica di vita: Matthías torna in paese dopo sei anni passati a girare il mondo alla ricerca di “qualcosa che fosse più grande” della ragazza che, senza nemmeno bisogno di cercare oltre il villaggio, si era rivelata la sua anima gemella; quella stessa ragazza, Elísabet, da brava islandese gli risponde “Smettila di fare lo stupido, sono una strega, e sono io che prendo te, non viceversa”; Bára, esile e delicata, ha studiato geologia ma durante una rissa vede nel gigantesco Hannes “un vero vulcano” e decide di sposarlo; Gaui, avvocato di successo nella capitale, finisce per bersi tutto e una volta tornato in paese viene accolto dal fratello nel seminterrato, a cui paga l’affitto con una storia alla settimana (un prezzo di favore: c’è chi ha dovuto raccontarne una a sera…)
Vite raccontate in prima persona dagli abitanti del villaggio; una prima persona che però è plurale, il “noi” collettivo di un coro greco, che rivolge ai compaesani uno sguardo lieve, a volte ironico, comprensivo, benevolo.

Un affresco delicato e autentico delle sfumature dell’esistenza e delle ragioni per cui vale la pena vivere. Perché, come scrive Peter Davidson in L’idea di Nord, l’estate nordica è “prodiga di luce” ma breve, e al suo volgere fa subito notte; e “molta della malinconia del nord deriva dall’impossibilità di salvare anche solo un minuto della lunga luce quando l’oscurità incalza”. O, nelle parole di Jón Kalman: “L’estate diventò un autunno giallo e rosso, il cielo si scurì e poi arrivò l’inverno”. Sebbene poi “Questo posto alla fine del mondo sarebbe a malapena abitabile se l’inverno non fosse così lungo e il cielo così nero”.

Nella sua videointervista, Silvia sottolinea quanto sia importante per l’autore l’intreccio fra presente e passato: fra i due non c’è distinzione bensì compresenza, una compenetrazione dei piani temporali che permette alla voce narrante di trasgredire la cronologia. Nel seguire le vicende dei personaggi la narrazione si sposta liberamente lungo l’ultimo quarto di secolo, e a volte i capitoli risalgono il corso del tempo: “non ci interessa rispettare la giusta sequenza temporale, o forse non ne siamo proprio capaci”.
E le implicazioni di questa concezione sono ancora più profonde. Se passato e presente convivono, perché non dovrebbero farlo la vita e la morte — o meglio, i vivi e i morti? Compare in questo romanzo un’idea che tornerà, e con altra potenza, nei successivi dell’autore: “Qualcuno ha detto che la vita e la morte procedono una accanto all’altra e tra loro non c’è che una parete sottile, per questo a volte vediamo le ombre del regno dei morti”. La prima notizia che ci viene data sul paese è che non ha cimitero né chiesa; il primo personaggio a comparire è il direttore del Maglificio, che dopo aver sognato in latino (“Tu igitur nihil vidis?”) abbandona una vita affermata per studiare il cielo stellato. Non dovrebbe forse stupire che la morte e la volta celeste siano connesse “qui in Islanda, in questo briciolo di terra sotto il cielo che si spalanca infinito”: più che naturale immaginare che chi si sbriglia dal legame terreno salga agli spazi siderali.
E proprio l’Astronomo rispecchia “uno dei sogni giovanili dell’autore, [che] si era iscritto alla facoltà di fisica per poi scoprire che a interessarlo veramente era il valore poetico dell’astronomia” (dalla postfazione di Silvia Cosimini). Jón Kalman (e sia chiaro una volta per tutte, i patronimici islandesi non sono cognomi e non possono essere usati come tali: si usa il nome completo o il nome proprio, come nel caso di una certa Björk) ha svolto in gioventù varie occupazioni, non si è laureato, ha cambiato residenza più volte, e in generale ha dimostrato che a interessarlo veramente è conoscere la vita per poterne scrivere, e che unicamente questa è la sua vera vocazione: prova ne siano i nove romanzi pubblicati in quindici anni. Luce d’estate è il sesto e quello del riconoscimento in patria, dove ha vinto il Premio Islandese per la Letteratura, e all’estero, dov’è stato tradotto e ammirato. Tuttavia, nonostante la qualità raggiunta, lo stile mostra ancora alcune incertezze, e la prosa non è ancora affinata in quel flusso magistrale, sinuoso e poetico che solo due anni dopo avrebbe graziato il successivo Paradiso e inferno. Naturalmente, la conditio sine qua non di queste considerazioni è l’ennesima, riuscitissima traduzione di Silvia. Se Jón Kalman manterrà questi ritmi, metterà a dura prova i suoi traduttori; se manterrà questa qualità, metterà a dura prova i suoi colleghi.

Jón Kalman Stefánsson
Luce d’estate ed è subito notte
(2005)
traduzione e postfazione di Silvia Cosimini
pp. 304, €16
Iperborea, 2013

Giudizio: 4/5.