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Paolo Barbaro, Venezia: L’anno del mare felice

Paolo Barbaro, Venezia. L'anno del mare feliceL’anno del mare felice” non è un evento storico riesumato dagli annali della Serenissima, come erroneamente avevo supposto in un primo tempo, bensì un episodio di cronaca recente: “l’anno 1993”, per dirla con Saramago. Un anno speciale per la laguna di Venezia, che fin dai primi giorni dell’estate vive il miracolo di un mare insolitamente pulito e leggero: “«Mare leggero», nel gergo del golfo, vuol dire trasparente; con un tocco, nella leggerezza, di felicità”.

L’anno felice è documentato dal libro come un almanacco, mese dopo mese, da giugno a giugno. Il motivo di questo ritardo sull’anno solare è presto detto: “Ha avuto continue esitazioni l’Adriatico, nelle settimane scorse: «mare nervoso», ci assicurano al largo, «prima di decidersi»”. Nel raccontare questo stato di grazia, il resoconto di Barbaro ha il pregio, raccolto nel 2003 da Matvejević in L’altra Venezia, di considerare non solo la città ma l’intera laguna, facendo parlare fin dalle prime pagine “i pescatori notturni, gli amici meteorologi, gli uomini anfibi che sentono la laguna prima con la pancia e poi con gli strumenti”. Barbaro, come poi Matvejević, ricorda che l’Adriatico era chiamato golfo di Venezia: “golfo, canale, laguna, «rio», darsena, fiume, palude, mare vero e proprio, bocche, «valli», cime, code, fosse, porti…”. In occasione dell’anno felice si interroga sui legami tra mare e laguna, laguna e isole, in un equilibrio fragilissimo e millenario: “viviamo in simbiosi con l’acqua, siamo sempre vissuti in simbiosi, da chissà quante generazioni”.

Ovviamente i capitoli invernali, quand’è più difficile prendere il largo, sono dedicati alla città. E per chi conosce, ama e vive Venezia, un libro come questo è interessante e prezioso anche diacronicamente, per poter confrontare la Venezia del 1993 con quella del 2013. Scopriamo che l’acqua alta di quell’ottobre ebbe poco da invidiare alle attuali; che proprio quell’ottobre, con “la fine della sperimentazione «in sito»”, venne smantellato il primo castello del Mose; che il carnevale quell’anno fu sottotono, perfino “smascherato” perché “i volti”, le maschere, erano stati proibiti “per via del terrorismo internazionale” (scopriamo così, incidentalmente, pure che i Bush del nuovo millennio non hanno inventato nulla).
Ma i capitoli più belli e toccanti sono dedicati a questo o quell’aspetto della città. Uno ai ponti: “nell’ambiente tuttora magico di queste quattro isolette, i ponti restano i nodi d’una grandiosa utopia divenuta realtà di pietre e di acque”; un altro al solo ponte di Rialto, “gran teatro sospeso”, che proprio quel marzo compiva quattrocento anni, sei mesi dopo il cinquecentenario dello sbarco di Colombo (pure quello, guarda caso, su un’isola). Un altro ancora alla “bellezza schiva” della chiesa di S. Maria e Donato, che nessuno conosce perché relegata “in un posto appartato, a Murano”. Barbaro, che abita a Dorsoduro, camminando verso la Sacca della Misericordia ritrova a Cannaregio “tutti gli elementi, tutto il fraseggio dell’ambiente veneziano; ma ogni battuta qui è dolcemente accordata in un mare musicale di luce”.
C’è anche un capitolo in cui Paolo Barbaro, scrittore prolifico e affermato anche all’estero, che in realtà di nome fa Ennio Gallo e di lavoro l’ingegnere idraulico per l’ENEL (o meglio faceva, all’epoca; ora va per i novanta), ne approfitta per svelare “il bosco dimenticato”: la foresta di alberi, provenienti “dal Cadore, […] dall’Istria, dalla Dalmazia, dalla Slavonia”, che da sempre sono le fondamenta dei palazzi veneziani.

Fondata tra i sogni, Venezia doveva essere leggera, quasi aerea, per non sprofondare”; e per cantarla, Barbaro ricorre ad una prosa altrettanto lieve, impalpabile e affascinante. Con quell’accenno alla leggerezza, che ho citato all’inizio e che compare nel primissimo paragrafo del libro, l’autore pare richiamarsi implicitamente all’auctoritas della prima qualità che Calvino auspicava per la letteratura del nuovo millennio; e proprio alle città invisibili calviniane sembrano ispirati questi capitoli, se è vero che nei suoi dialoghi con il Khan è sempre alla nativa Venezia che Marco Polo ripensa, costretto a descriverla ripetutamente perché “questa resta la città plurale —resta «Venezie» tuttora—, perché è ormai il luogo del sogno in cui talvolta si riesce a stare anche da vivi”.

Il libro fu pubblicato nel 1995; ora non si trova più neppure sul sito dell’editore. Io ne ho scovato una copia nel catalogo della biblioteca comunale, che per motivi di vicinanza geografica possiede molti testi su Venezia.
Alcuni capitoli, informa la pagina del copyright, sono stati pubblicati sulla Stampa: un po’ anteprima del libro e un po’ articoli a sé. Il penultimo, e più lungo, è stato inviato ad un convegno internazionale intitolato La mer impossibile.

Paolo Barbaro
Venezia: L’anno del mare felice
pp. 164, fuori commercio
Il Mulino, 1995

Giudizio: 4/5.