Il paese delle ultime cose è una città senza nome, la cui popolazione vive in condizioni spaventose. Il lavoro produttivo non esiste più, sostituito da una disperata economia del riciclo. Ne deriva una carenza cronica di cibo, vestiario, abitazioni. La città si ciba di se stessa, letteralmente. Il crimine è la norma, e non viene punito da un governo che si preoccupa solamente della raccolta di rifiuti umani e cadaveri, riutilizzati come combustibile―l’unica fonte di energia disponibile nella città, per i pochi privilegiati che se la possono permettere. La povertà dilagante non esclude infatti sacche di benessere e disuguaglianze sociali. La coesione sociale è implosa, lasciando posto alla predazione sistematica (qualcuno citava a questo proposito il Leviatano di Hobbes, e l’intuizione è meno ovvia di quanto potrebbe sembrare considerando che anche Auster ha scritto il suo Leviathan). La città è politicamente indipendente, e nulla nel testo suggerisce che l’attuale situazione sia stata provocata da cause esterne, come la guerra. Gli indizi lasciano invece supporre che sia decaduta progressivamente, con l’avvallo di governi impotenti o semplicemente disinteressati a fermare il collasso.
Il libro è un romanzo epistolare scritto da Anna Blume, giovane ebrea alla ricerca del fratello maggiore, giornalista, incaricato di svolgere un reportage ma irreperibile da mesi. Dopo le prime 40 terribili (e per me fulminanti) pagine introduttive, Anna inizia quindi a raccontare le proprie vicende nella città. Attraverso di lei scopriamo che pure in uno scenario così disumano sono possibili altruismo, gentilezza e compassione, perfino sesso e amore; scopriamo che anche dove sembra impossibile c’è chi preserva quanto ci rende umani.
L’urgenza della sua testimonianza ne ricorda altre, reali e non fittizie; anzitutto quella di un’altra, ancor più giovane Anna, anche lei ebrea. Il punto di vista femminile peraltro non è secondario, e sarei curioso di sapere cosa ne pensano le lettrici. Auster ha dedicato il romanzo alla moglie Siri Hustvedt, che in un’intervista ha rivelato di averlo sempre considerato il ‘suo’ romanzo, tra tutti quelli di Paul. In the Country of Last Things, suo primo romanzo dopo la New York Trilogy, viene generalmente considerato estraneo al classico ‘canone’ di Auster, ma contiene in verità caratteristiche tipiche del suo stile: la prosa, la narrazione in prima persona, il tono diaristico che procede per divagazioni non sempre cronologiche, e per finire la ‘musica del caso’: tutte le vicende di Anna, dagli incontri con gli altri personaggi alle svolte nella trama, sono provocate dal caso. Certo, l’ambientazione imprecisa e quasi astratta può sembrare insolita; ma la stessa New York della Trilogia era in fondo un luogo quasi altrettanto astratto.
A questo proposito, sono caduto nella tentazione di chiedermi quale città potesse nascondersi dietro gli scarsi indizi forniti: Anna parla di un porto a sud e di vaste aree a nord, ad ovest delle quali si estendono distese coltivate, poi il deserto ed infine ‘un altro oceano’. La Grande Mela è l’ipotesi più probabile (riportando alla mente la serie DMZ, scritta da Brain Wood). Ma questo è wishful thinking: l’aspetto fondamentale dell’ambientazione è proprio la sua indeterminatezza.
Il fatto stesso che si tratti solamente di una città distingue questo libro dalla catastrofe planetaria di The Road di McCarthy, cui è precedente di vent’anni, e lo rende a mio avviso più interessante. Ma in ultima analisi la differenza principale tra i due riguarda i riferimenti letterari. McCarthy si rifà esplicitamente alla Bibbia, anche a livello linguistico; in fin dei conti il concetto stesso di storia teleologica, in cui rientra il filone post-apocalittico, è ebraico e biblico. Auster invece ha un approccio da ebreo laico, più legato all’esperienza ed alla testimonianza di altri ebrei (durante la Shoah, ma anche sotto lo stalinismo) che non ai testi sacri. Lui paga qui un tributo anzitutto a Kafka: il paese delle ultime cose è effettivamente ‘kafkiano’, nella misura in cui mantiene un governo e un apparato municipale distante, enigmatico, opprimente, intento unicamente all’autopreservazione. Ci vedo anche la lezione distopica di Burroughs e di scrittori più giovani che ne hanno seguito le intuizioni, come Kathy Acker.
Auster dipinge una situazione estrema ma non inverosimile, e non credo sia necessario sforzare troppo l’immaginazione per trovare echi di Stalingrado o della Polonia sotto la legge marziale, o ancora degli scenari di guerra sub-sahariani. La testimonianza di Anna, indirizzata idealmente ad un suo amico d’infanzia, nella disperata speranza che possa leggerla, è quindi un monito per tutti. Ed è consolante riscoprire nell’incipit del romanzo, “These are the last things, she wrote. One by one they disappear and never come back”, quel piccolo inciso, quel she wrote, che sembra suggerire una coscienza esterna, qualcuno che legge la lettera di Anna.
p.s.: pubblicato nel 1987, nel bel mezzo dell’era Reagan-Tatcher, ItCoLT è probabilmente uno dei romanzi più politici di Auster, assieme al già citato Leviathan.
Paul Auster
In the Country of Last Things (1987)
pp. 208, £8
Faber and Faber, 1988
Giudizio: 4/5.