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NO SOUND in SPACE: a Music Sampler for Stargazers

Ispirato dal gruppo di lettura per ragazzi della libreria Il pensiero meridiano di Tropea (VV), che quest’anno ha fatto una selezione a tema fantascientifico, ho deciso di creare una playlist dedicata alla space music: un viaggio intergalattico fra pop e psichedelia, hip hop e funk, jazz ed elettronica. Un tema che ha affascinato la cultura popolare soprattutto durante la corsa allo spazio fra USA ed URSS (e vale la pena ricordare che i russi vinsero tutte le tappe tranne l’ultima) ma che negli ultimi anni sta avendo uno spettacolare revival, specialmente nell’ambito dell’afrofuturismo. La mia selezione predilige le atmosfere agli ammiccamenti testuali, con un occhio di riguardo per quanti hanno avuto un approccio innovativo e spregiudicato alla tecnologia e alla strumentazione: quanto segue è fatto di suoni ancor prima che di note. Non troverete quindi “Space Oddity”, “Satellite of Love” né Ziggy Stardust, capolavori amati che però hanno ben poco di futuristico.
La playlist è disponibile su Spotify:

Cassini, “Enceladus Sound” (2005)

Nello spazio non c’è un’atmosfera che trasmetta i suoni. Ma nella sua missione di esplorazione di Saturno, la sonda Cassini ha usato un magnetometro per registrare l’atmosfera della luna Enceladus. La space music insegna ad ascoltare con orecchie nuove.

The Tornados, “Telstar” (1962)

In qualità di produttore discografico e tecnico del suono, Joe Meek è stato un pioniere dell’uso creativo dello studio di registrazione; in quanto compositore ha portato la space music nella cultura popolare. Questo brano, ispirato al primo satellite artificiale usato per le telecomunicazioni, fu il primo singolo britannico ad arrivare in cima alla classifica statunitense. Nonché, per sua stessa ammissione, il brano preferito della regina Elisabetta II. Peccato che questo visionario non ricevette mai le royalties di “Telstar”, e fu portato al suicidio da una legislazione che ancora considerava l’omosessualità come un reato.

Pink Floyd, “Astronomy Domine” (1967)

Le credenziali fantascientifiche dei Pink Floyd sono spesso esagerate (e del tutto pretestuose nel caso di Dark Side of the Moon), ma il primo brano del loro primo album è un trip non solo lisergico: aperto dalla voce del produttore che imita quella di un astronauta, e guidato in orbite inesplorate dal precoce genio strumentale di Syd Barrett.

The Jimi Hendrix Experience, “Third Stone from the Sun” (1967)

Presenza scenica, abbigliamento, tecnica strumentale, composizione, arrangiamento, ruolo della chitarra ritmica e solista (spesso in contemporanea), uso della tecnologia, l’intera concezione dello strumento come sorgente sonora… Hendrix sconvolse tutto (e tutti). La sua carriera solista durò meno di cinque anni, ma quegli anni rimarrano per sempre nel futuro.

Grateful Dead, “Dark Star (single edit)” (1968)

Questa versione di “Dark Star” venne pubblicata come singolo nel 1968. Sul disco registrato dal vivo Live/Dead occupava un’intera facciata del vinile (23 minuti). In concerto il brano veniva dilatato a mezz’ora e più, con lunghe sezioni strumentali che spaziavano dalla psichedelia al jazz modale; non a caso i fan del gruppo chiamano queste improvvisazioni ‘the space’. La corsa allo spazio degli anni ’60 era ancora in corso, ma Jerry Garcia e compagni erano arrivati già lontano.

Sun Ra, “Aiethiopia” (1958)

Herman Blount era nato nell’Alabama segregazionista, ma diceva di chiamarsi Sun Ra e di venire da Saturno, un paradosso che illustra perfettamente quanto sia anzitutto il razzismo a provocare alienazione. Il suo era inoltre un gesto di orgoglio pan-africano: i Dogon del Mali venerano la stella Sirio, e nei loro miti le antiche civiltà africane risalgono a una razza aliena. Guardando contemporaneamente al passato e al futuro, alla fantascienza pulp e all’egittologia (come nel titolo di questo disco, The Nubians of Plutonia), Sun Ra ha fondato l’afrofuturismo, un movimento culturale oggi più che mai attuale.

John Coltrane, “Stellar Regions (Venus)” (1967)

Per John Coltrane ricerca spirituale e perizia tecnica coincidevano. Il suo tragitto ha inglobato nel jazz la musica indiana e africana, fino ad aprirsi al free jazz di Ornette Coleman e al jazz astrale di Sun Ra. La sua carriera è stata una vera supernova: così intensa da bruciare in fretta, così luminosa da lasciarci ancora meravigliati.

Pharoah Sanders, “Astral Traveling” (1971)

I primi a raccogliere l’eredità di Coltrane dopo la sua prematura scomparsa furono i musicisti che avevano suonato con lui negli ultimi anni di vita: la moglie Alice e Pharoah Sanders (il cui soprannome, ‘Faraone’, fu suggerito da Sun Ra). Sanders portò lo spiritualismo di Coltrane a nuovi livelli, in brani che spesso, e non sempre, erano contenuti solo dai limiti fisici del vinile. Questo brano tuttavia nacque per caso: mentre gli altri musicisti montavano sax e batteria nello studio, il pianista Lonnie Liston Smith si mise ad armeggiare con uno strumento che non aveva mai visto, un piano elettrico Fender Rhodes.

Herbie Hancock, “Rain Dance” (1973)

Non solo l’astral jazz guardava alle stelle: giovane prodigio nello storico secondo quintetto di Miles Davis, Hancock partecipò alla svolta elettrica del periodo fusion. Quell’esperienza lo ispirò a fondare una band di jazz/funk/progressive che pubblicava composizioni di un quarto d’ora in 15/8 e aveva un nome swahili, Mwandishi. Alla sperimentazione formale corrispondeva del resto l’innovazione tecnologica: questo brano si apre sulle note dell’allora neonato sintetizzatore ARP 2600, con tale anticipo sui tempi che l’unica persona in grado di suonarlo era il suo inventore.

Parliament, “Mothership Connection (Star Child)” (1975)

George Clinton riuscì nell’impresa di stipulare per la sua band due distinti contratti, sotto diverso nome: Parliament e Funkadelic, abbreviati nella sigla P-Funk. Non contento, decise di raccogliere l’eredità di Sun Ra e portare il funk nello spazio. Ispirandosi tanto a Jimi Hendrix quanto a James Brown, il P-Funk, divenuto nel frattempo un collettivo di vari gruppi e solisti, creò un’intera mitologia cartoonesca incentrata sulla ‘connessione all’astronave madre’ che dà il titolo a questo brano e al disco omonimo. Nelle parole dello scrittore Minister Faust, Sun Ra e George Clinton sono i Morpheus e Neo dell’afrofuturismo.

Neu!, “Seeland” (1975)

Inizialmente membri dei Kraftwerk, Klaus Dinger e Michael Rother fondarono i Neu! nel 1971, pubblicarono tre dischi misconosciuti, e cambiarono la storia della musica. Il loro primo album ha preconizzato qualsiasi cosa dal post punk al post rock, il secondo è stato fra i primi ad usare la tecnica del remix, mentre il terzo ha aperto la strada, paradossalmente, tanto al punk quanto alla musica ambient, e rappresenta forse il miglior esempio dello stile motorik: una decostruzione radicale della struttura della canzone rock, basata sulla ripetizione ritmica ed armonica, a creare orizzonti di quieta bellezza.

Kraftwerk, “The Man Machine” (1978)

Il mondo, sulla scorta dei britannici, lo chiama kraut rock; ma in patria la musica sperimentale tedesca degli anni ’70 viene definita kosmische musik: nomen omen. Ispirandosi all’accademia più avanguardistica, e specialmente a Karlheinz Stockhausen, gruppi quali Tangerine Dream e Kraftwerk furono pionieri dell’utilizzo degli strumenti elettronici, e i loro brani sono spesso viaggi di esplorazione degni della migliore psichedelia anglosassone.

Sun Ra, “Space Is the Place” (1979)

La carriera sessantennale di Sun Ra potrebbe riempire una dozzina di queste playlist senza andare mai fuori tema. “Space Is the Place” è uno dei migliori slogan della space music e uno dei suoi brani più simbolici (ha dato il titolo anche ad un lungometraggio). Questa versione è più concisa dell’originale del 1972, che occupava un intero lato del disco omonimo.

Afrika Bambaataa, “Planet Rock” (1982)

Da ragazzo, Lance Taylor era a capo della più grande gang del Bronx, i Black Spades. Era rispettato e temuto, ma sapeva di dover superare quella cultura settaria. Sotto la sua guida i Black Spades divennero la Universal Zulu Nation, un’associazione nonviolenta e multietnica il cui slogan è ‘peace, love, unity, and having fun!’ Lui si reinventò da warlord a deejay, e fondendo l’immaginario astrale di Sun Ra, il funk di George Clinton e la musica electro di formazioni seminali quali Jonzun Crew e Kraftwerk (citati direttamente in questo brano), Afrika Bambaataa fu tra i pionieri di una rivoluzione: l’hip hop.

Man Or Astro-Man? “Super Rocket Rumble” (1996)

Lo stile dei Man Or Astro-Man è in realtà debitore dei gruppi surf degli anni sessanta più che della coeva space music. Ma il loro immaginario è irresistibilmente colonizzato dalla fantascienza di serie B: clips sonori dai film, copertine che sembrano posters, e tute spaziali come costumi di scena. Impossibile tralasciarli!

Radiohead, “Subterranean Homesick Alien” (1997, rimasterizzato 2017)

Da band di liceali di provincia appassionati di indie rock anni ’80 a postmodernisti capaci di ricombinare in uno stesso disco brani acustici, elettronica digitale, jazz, avanguardia novecentesca e tutte le innovazioni del rock degli ultimi quarant’anni: i Radiohead sono stati semplicemente la più importante rock band a cavallo del nuovo millennio.

Janelle Monáe, “Tightrope (feat. Big Boi)” (2010)

Janelle Monáe viene dall’anno 2719, dove il suo DNA è stato clonato illegalmente per creare un’androide, Cindi Mayweather. Nel futuro, Cindi è costretta alla fuga per aver commesso il crimine d’innamorarsi di un essere umano. Nel nostro presente, Janelle propaganda il movimento di liberazione dei droidi. Il risultato è un’esalogia musicale vertiginosa e ipercitazionista: George Clinton e Grace Jones, Prince e David Bowie, girl groups e pop orchestrale, Metropolis, Matrix e Blade Runner, il movimento antischiavista e quello LGBT…

Flying Lotus, “… and the World Laughs with You (feat. Thom Yorke)” (2010)

Flying Lotus si chiama in realtà Steven Ellison ed è il nipote di Alice Coltrane. Nell’ultimo decennio ha reso omaggio alla sua genealogia pubblicando ad anni alterni dischi colmi di miniature musicali che declinano l’astral jazz in beats elettronici. Prima dei trent’anni, inoltre, FlyLo era già al centro di un network di musicisti che da Los Angeles sta cambiando le regole della creazione musicale. Il tema astrale presente in molte sue produzioni ha raggiunto l’apice con il disco Cosmogramma, fra citazioni di Sun Ra (“Arkestry”), della ‘zietta’ Coltrane (“Auntie’s Harp”) e una collaborazione con Thom Yorke dei Radiohead.

Shabazz Palaces, The Phasing Shift Suite (2014)

Misteriosi, musicalmente sorprendenti e liricamente enigmatici, gli Shabazz Palaces sono l’emblema dell’afrofuturismo contemporaneo. Nel 2017 hanno pubblicato non uno ma due concept albums che ritraggono la società statunitense dal punto di vista (letteralmente) alieno del protagonista, Quazarz. Ma noi abbiamo scelto la suite che apre il loro precedente album sull’alba di Luxor.

Calibro 35, “An Asteroid Called Death” (2015)

Mi piace includere una delle migliori formazioni dell’attuale panorama nostrano, che ha fatto dei film di serie B la sua ragione d’essere. Dopo aver reinterpretato magistralmente le colonne sonore dei peggiori poliziotteschi d’annata, i Calibro 35 hanno pubblicato un concept album intitolato programmaticamente S.P.A.C.E.

David Bowie, “Blackstar” (2015)

Il pedigree fantascientifico di David Bowie meriterebbe una trattazione a parte: ha impersonato non uno ma due alieni sul palco, il terzo come protagonista del film L’uomo che cadde sulla Terra, e il suo Major Tom è l’astronauta più famoso del rock. Ma l’ultimo suo colpo di teatro, pubblicato in corrispondenza del suo 69° compleanno, è un disco ancora una volta innovativo, aperto da un singolo di ‘avant-jazz fantascientifico’ che dura 9:58 per poter beffardamente rientrare nei limiti imposti da iTunes (10 minuti). Fu l’ultimo viaggio di Major Tom: Bowie morì due giorni dopo la pubblicazione.

SOUNDS for TOMORROW: a Music Sampler for Futurists

La ricerca dei brani da inserire ha prodotto inevitabilmente varie outtakes, abbastanza da organizzare una seconda playlist a tema più strettamente fantascientifico. Questa selezione è formata principalmente da tre categorie: colonne sonore di film di fantascienza, che abbiano tuttavia raggiunto una propria autonomia come composizioni musicali (da un classico moderno come Vangelis ai Daft Punk passando per un visionario come Shoji Yamashiro); brani a tema futuristico, o ispirati a romanzi di genere (che sia la trilogia d’esordio di William Gibson, Arancia meccanica o 1984); brani il cui sound stesso è futuristico, dai Neu! agli Autechre. Purtroppo non sono disponibili su Spotify alcuni musicisti che sarebbero stati perfetti in questo contesto, come Kenji Kawai o la già citata Jonzun Crew.

Curtis Mayfield, “Future Shock” (1973)
Neu! “ISI” (1975)
Kraftwerk, “Computer Love” (1981)
Vangelis, “Blade Runner (End Titles)” (1982)
Sonic Youth, “The Sprawl” (1986)
Geinō Yamashirogumi, “Kaneda” (1988)
Autechre, “Eutow” (1995)
Radiohead, “2 + 2 = 5” (2003)
Clock DVA, “The Konstruktor” (2014)
Deltron 3030, “3030” (2000)
Cannibal Ox, “Scream Phoenix” (2001)
Janelle Monáe, “Sally Ride” (2013)
Daft Punk, “The Game Has Changed” / “Tron Legacy (End Titles)” (2010)

Brian Wood, Ribelli vol. 1: Una milizia ben regolamentata

Nell’attuale panorama fumettistico statunitense, Brian Wood è un nome di spicco, uno scrittore la cui prolificità pare non intaccare un’inesauribile riserva di concepts originali e intriganti, oltre che molto eclettici.
Alcuni temi tuttavia tornano regolarmente nella sua produzione, o bisognerebbe parlare piuttosto di pratiche narrative: i suoi personaggi ad esempio sono spesso portatori di un’ideologia radicale (attivisti, ribelli, rivoluzionari) costretti tuttavia dagli eventi storici a mettere in discussione le proprie convinzioni e a confrontarsi con la propria etica.
Questo meccanismo, declinato da Wood di volta in volta come affresco storico (l’epopea vichinga di Northlanders), distopia urbana (DMZ) o ecologica (The Massive), è anche il cuore tematico di Rebels, serie che rivisita uno degli episodi cruciali della storia statunitense, la guerra d’indipendenza. Di nuovo un’ambientazione storica quindi, che conferma tuttavia l’abilità di Wood di osservare criticamente il presente anche attraverso le lenti della narrativa storica o distopica. Non sembra casuale, in quest’ottica, che abbia scelto uno dei miti fondativi della nazione proprio alla vigilia della stagione elettorale statunitense. La serie ha infatti esordito in patria nel 2015 per la Dark Horse Comics, storica e raffinata casa editrice di Sin City, Hellboy e Concrete; il primo arco narrativo, seguendo la pratica ormai standard nei comics di raggruppare tematicamente i singoli albi in previsione della ristampa in volume, è stato pubblicato l’inverno scorso in Italia da Mondadori nella prestigiosa collana Historica, dedicata finora principalmente al fumetto franco-belga.

Protagonista di questo primo ciclo è Seth Abbott, figlio di un contadino dei New Hampshire Grants, i terreni dati in concessione dalla corona britannica ai coloni. Ma quando il governo centrale sembra intenzionato a riprendere il controllo dei grants, anche forzatamente, il malcontento cresce soprattutto fra i proprietari terrieri, e non tarda a diventare violento. Di conseguenza Seth è ancora un bambino quando viene coinvolto dal padre Jacob in un agguato alle giubbe rosse, e vanta già una lunga gavetta nella guerriglia al momento dello scoppio ufficiale del conflitto, pur non avendo ancora compiuto diciassette anni. È cresciuto nella lotta indipendentista, e nel 1775 gli viene offerto di unirsi a una milizia privata, i Green Mountain Boys, spesata da un possidente che si dichiara “patriota”. Wood, originario del New England, ne fa il teatro della vicenda; la precisione con cui riporta la località di ciascun episodio permette di ricostruire quasi topograficamente l’evoluzione del conflitto e, parallelamente, degli stati indipendenti. Il secondo episodio si apre “a ovest del Connecticut River, a nord del confine con il Massachusetts, a est di Wood Creek e Lake Champlain e appena a sud del Quebec e del territorio indiano”; nella terra che “sarebbe stata chiamata Vermont, e prima della fine del secolo sarebbe diventata il quattordicesimo stato della nazione”, quello che due secoli dopo avrebbe dato i natali a Wood.

Non è casuale la definizione dei confini mediante gli elementi naturali: uno dei sottotesti della serie (spesso impliciti, come vedremo) è la dimensione ancora incontaminata del paesaggio nordamericano, dei corsi e degli specchi d’acqua e specialmente delle vaste foreste che saturano i numerosi campi medi delle ampie vignette, esaltate per l’occasione dall’edizione di grande formato. A sorprendere è piuttosto che il compito di raffigurare questi scorci della nascente nazione americana sia stato affidato all’italiano Andrea Mutti, di scuola bonelliana e forse per questo a proprio agio con quello che pare inevitabile definire ‘selvaggio nordest’. Doverosa menzione anche per i bellissimi colori di Jordie Bellaire, efficaci e mai sopra le righe.
Pare volersi accordare ai cicli naturali dei raccolti, al ritmo di una società ancora rurale che si spostava a dorso di bue, anche lo storytelling lento e cadenzato, che scandisce le tappe della guerra con l’avanzare delle stagioni. Intere settimane sono necessarie per spostarsi da un fronte all’altro, giorni e giorni spesi percorrendo a piedi, silenziosamente, i folti boschi che i Green Mountain Boys conoscono così bene; nel tragitto non hanno bisogno di scambiarsi che poche parole, e allo stesso modo Wood, Mutti e Bellaire riescono con pochi elementi a intessere una narrazione stratificata, che solo ad una lettura attenta mostra tutta la sua profondità.
L’attenzione per il dettaglio storico e geografico si estende ai dialoghi (peculiare l’uso sistematico della formula ‘sir’) e al vestiario (le fodere di cuoio usate per proteggere le canne dei fucili ad avancarica dall’umidità dei boschi) ma coinvolge soprattutto, com’è naturale nel caso della historical fiction, l’interazione fra il contesto storico e l’individuo con la propria agency: un concetto fondamentale nella cultura statunitense, che chiama in causa il libero arbitrio e l’autodeterminazione. E se il sottotitolo di questo primo volume è Una milizia ben regolamentata, la serie concentra l’attenzione sulle scelte dei singoli piuttosto che sulla funzione della milizia in quanto tale; sebbene la prefazione italiana di Sergio Brancato sottolinei l’attualità contemporanea della riflessione “sul ruolo delle milizie armate nel contesto della contrapposizione tra la dimensione locale e quella federale”.

Nel giro di pochi mesi i Green Mountain Boys passano dalle azioni di guerriglia agli scontri in campo aperto a supporto dell’esercito continentale — seppure “non ufficialmente”, come chiosa Seth. Un’operazione ordinata nientemeno che da “sua maestà George Washington” in persona (“immagino che non sarà chiamato così quando sarà tutto finito, no?” osserva il responsabile, in realtà un libraio) si rivelerà irta di complicazioni e povera di riconoscimenti; i miliziani montanari dovranno fare i conti con la diffidenza del ‘sudista’ Washington nei confronti del New England oltre che con la “solita arroganza di Boston”.
Wood dimostra qui, ancora una volta, la capacità di rileggere la vicenda in maniera ricca di sfumature e tutt’altro che monolitica.
Seth è legato alla milizia da un contratto biennale, al termine del quale diverrà proprietario della sua fattoria e potrà dedicarsi alla famiglia; eppure decide di continuare a combattere, non solo per la sua terra e il suo stato ma per un concetto più astratto, una nuova nazione federale. Ironico che sia proprio lui, diffidente della proprie capacità retoriche (che peraltro si scopriranno prontamente notevoli) fin da quel primo agguato nei boschi della sua infanzia, a tentare di spiegare il valore della causa patriottica con parole che alla giovane moglie suonano pompose: “L’ideale è che le colonie siano un’unica cosa, unite. Questo le rende tutte casa nostra. Questo le rende degne di lottare”. La guerra costringe a crescere in fretta, e impone dure scelte anche a chi, come Seth, è in fondo poco più di un adolescente.

E alla fine della guerra, dopo aver combattuto tra l’altro a fianco di un gruppo di donne afro-americane, i New Englanders si vedono costretti a fare i conti con l’avvallo che il nuovo governo federale riconosce allo schiavismo sudista. Esausto, amareggiato, Seth non trova risposta migliore che lavarsene le mani: “Rifiuto di far parte di [un popolo] che commercia gli uomini come bestiame. Non è la guerra che io ho combattuto”.
Quando poi, dopo anni di sacrifici, ha l’opportunità di tornare dalla sua famiglia, scoprirà che la vita non è stata meno dura per chi è rimasto a casa, e che la fine della guerra è solo la premessa per iniziare a costruire qualcos’altro: meno avventuroso e spregiudicato, ma non meno impegnativo.

 Brian Wood
Ribelli: Una milizia ben regolamentata
disegni di Andrea Mutti, colori di Jordie Bellaire
pp. 144, €13
Mondadori, 2015

Giudizio: 4/5

Carll Cneut: una panoramica delle pubblicazioni italiane

Carll Cneut è nato in un villaggio belga affacciato sul confine francese e ha trascorso la sua vita adulta a Gent, non lontano dall’Olanda. È uno dei migliori illustratori dell’attuale panorama europeo e le sue opere, che non sorprende vedere pubblicate anche oltreoceano, non mancano di suscitare regolarmente profonda ammirazione e stupore, per la grande inventiva e un uso spesso mozzafiato del colore. Al contempo il suo stile sembra erede della tradizione fiamminga nella stupefacente cura del dettaglio e in una doviziosa verosimiglianza. Più spesso che no, inoltre, le sue meraviglie grafiche sono abbinate ad una vena narrativa malinconica e riflessiva.

È il caso di La meravigliosa storia d’amore di Mr Morf, il primo volume di cui Cneut ha curato anche i testi, dopo una mezza dozzina di collaborazioni con Geert De Kockere. A quanto riportato nel risvolto, e per la verità anche sul sito dell’autore, prima d’iscriversi alla scuola d’arte Cneut aveva considerato seriamente una carriera circense, e dev’essere stato quindi naturale per lui voler tornare a quella realtà. Il protagonista, Mr Morf, non diversamente dal suo creatore, cela dietro l’apparenza ordinaria doti fuori dal comune e un impiego insolito. Mr Morf infatti è un cane equilibrista. Ed è bravissimo nel suo lavoro, ma si sente solo: tutti i suoi colleghi, dalle scimmie trapeziste alle oche giocoliere, hanno un compagno e sono felici. Tutti tranne lui. Decide quindi di allontanarsi dal circo alla ricerca di un amico. La quest che ne deriva dà un nuovo significato all’espressione ‘solo come un cane’, dato che Mr Morf approccia senza successo talpe, maiali, e perfino un gatto. E la scoperta dell’unico animale che alla fine vorrà rimanergli accanto (o per meglio dire… addosso) non potrà che suscitare l’empatia dei lettori di ogni età; tanto che riesce spontaneo supporre che proprio questo fosse l’intento dell’autore.
Graficamente Cneut si sbizzarrisce a inventare rondini in frac e una vistosa tuta rossa* per Mr Morf (per non parlare della deliziosa valigia a forma d’osso), e al tempo stesso dimostra grande bravura nel contrapporre queste esplosioni di colore a eloquenti spazi vuoti: magistrale ad esempio la distanza che separa il protagonista dai compagni del circo nel momento della separazione.

Nel recente La voliera d’oro, o la vera storia della principessa di sangue, su testi di Anna Castagnoli, Cneut porta la sua cura per il dettaglio alle logiche conseguenze. La scrittrice, che curiosamente vanta nel curriculum un’esperienza da trapezista circense, sostiene di aver udito in più occasioni, da persone della cui autorevolezza non è dato dubitare, la storia di una principessa che invia i suoi servi alla ricerca dei più esotici e rari esemplari di volatili per riempire le regie voliere. Animali fiabeschi e magari inesistenti, e nondimeno rappresentati  da Cneut con la sontuosa precisione di un naturalista: pagine e pagine di una moltitudine colorata che satura le tavole fino ai bordi e, così parrebbe, anche oltre. E se la mancanza di scrupoli della ‘principessa di sangue’ nel decapitare gli sciagurati servi che non riescono a soddisfare i suoi stravaganti capricci tinge il racconto di una tonalità crudele, l’effetto straniante delle immagini è dato dallo sguardo inespressivo degli uccelli, che sembrano fissare il lettore senza vederlo. Spiazza, soprattutto se accostato ai buffi personaggi che popolano il girovagare di Mr Morf, la totale mancanza di antropomorfismo di questi animali. Non c’è scrupolo né empatia; anche se non manca la speranza.
Cneut realizza qui il suo potenziale più spettacolare, rifinendo meticolosamente tanto i dettagli anatomici quanto il gusto decorativo, nell’accostamento dei colori sgargianti; ciascun pannello modula variazioni di giallo e nero, grigio e rosso, e il risultato non può che definirsi lussureggiante. Eppure queste sono anche, paradossalmente, le sue immagini più spontanee, spesso non complete, o addirittura abbozzate a malapena con un veloce tratto di matita; tanto che alcuni uccelli esistono compiutamente solo a metà, con un’ennesima spiazzante oscillazione di significato fra verosimiglianza e idealizzazione.

La stessa incompiutezza da sketchbook ritorna anche nel volume d’accompagnamento Uccelli da disegnare e colorare con Carll Cneut, naturale estensione che per ottanta pagine invita lettori giovani e non solo (considerando l’attuale successo degli Adult Coloring Books) a emulare più o meno fedelmente gli exploit grafici del nostro.

In attesa di meraviglie passate e venture.

* Memore delle tenute da supereroe proprio perché queste ultime sono ispirate alle tute da circo.

Carll Cneut
La meravigliosa storia d’amore di Mr Morf: uno stupefacente idillio al circo (2002)
traduzione di Livia Signorini
pp. 28, €12
Adelphi, 2004

Giudizio: 3/5.

Anna Castagnoli
La voliera d’oro, o la vera storia della principessa di sangue (2014)
illustrazioni di Carll Cneut
pp. 54, €24
Topipittori, 2015

Giudizio: 4/5.

Carll Cneut
Uccelli da disegnare e colorare con Carll Cneut (2014)
pp. 80, €16
Topipittori, 2015

Giudizio: 5/5.

Sean Ryan, X-Men Iron Man Nova: Senza fine

Pubblicato l’otto marzo 2015 su Lo Spazio Bianco.

Il volume raccoglie tre albi speciali della tarda estate 2014, e riunisce in un inatteso team-up Iron Man con la nuova classe mutante di Ciclope e il giovane Nova. Una storia per lo più slegata dalle rispettive testate regolari, e quindi fruibile anche da chi abbia un rapporto saltuario con la continuity marvelliana. Il volume è anche l’occasione di mettere in mostra tre nuovi acquisti del parco Marvel, disegnatori dagli stili già personali: Ron Ackins, un afro-americano che costruisce cambi d’inquadratura a effetto e sequenze organizzate per accumuli progressivi, giocando inoltre con la comicità a sorpresa (qui lo sketch di una delle sue tavole); Rahmat Handoko, che ricorda a tratti la lezione di Larroca; mentre lo stile di John Timms è più spigoloso, e nella schematizzazione dei lineamenti sembra a tratti riprendere Mignola. A legare tra loro le diverse interpretazioni grafiche è il lavoro della colorista Ruth Redmond, che si occupa dell’intera saga.
Da parte sua, lo scrittore Sean Ryan ha un passato come supervisore per la Marvel, evidente nel piglio divertito con cui gioca sui vari livelli del canone. Anzitutto nella scelta stessa di riunire in un’unica storia, quasi per sfida, personaggi appartenenti a diversi ambiti dell’universo Marvel, quali mutanti, Vendicatori ed eroi cosmici. Lo scrittore orchestra una trama che ben presto si fa interplanetaria, coinvolgendo nel mentre perfino lo S.W.O.R.D. (Sentient World Observation & Response Department) e alcuni oscuri personaggi minori, che solo un esperto sornione come Ryan poteva recuperare dai polverosi annali della Marvel. La sua impronta si nota anche nella decisione di parlare in ultima analisi dell’importanza di fare scelte mature con il potere che ci è dato (l’uso di quello che nella cultura statunitense viene definito agency) mediante una vicenda sospinta a più riprese da colpi di fortuna, fraintendimenti, errori; una storia che mette a nudo soprattutto i difetti e i limiti dei personaggi con una narrazione autoironica e antiepica.
Ryan sceglie l’ultima leva di X-Men, la classe che dopo la morte del professor X è guidata da Scott Summers, Emma Frost e Illyana Rasputin. Il continuo rinnovamento dei ranghi, il periodico arrivo di nuovi giovinastri, è una delle peculiarità e al contempo dei punti di forza delle serie mutanti, un salubre svecchiamento che le distingue da altre testate con un cast più statico. O forse no? Questo costante ricambio rende effettivamente più complicato affezionarsi ai personaggi; a volte è difficile ricordarne anche solo i nomi. In un ammiccante commento intranarrativo, Tony Stark confessa ad un agente dello S.W.O.R.D. di aver da tempo rinunciato ad imparare i nomi delle nuove reclute mutanti (salvo poi pentirsi di non aver studiato a dovere i loro poteri). Lo scrittore dedica a questo aspetto anche un’altra riflessione metanarrativa. In apertura della storia, gli studenti si riuniscono ad ammirare la foto che uno di loro, Fabio Medina, ha ritrovato negli archivi della scuola: un gruppo di loro coetanei, che il lettore affezionato riconosce come i Nuovi Mutanti, ma fra cui loro sanno individuare unicamente una giovane Magik. Messi di fronte a un gruppo di ‘nuovi mutanti’ ormai ‘storico’, i ragazzi sono visibilmente turbati; e uno di loro in particolare confessa a Illyana di essere tormentato dal timore di venire dimenticato come lo sono stati i vecchi compagni di squadra di lei. Che fine fanno le ex-nuove leve? Cosa comporta crescere? Questo è in fondo uno dei temi ricorrenti delle testate Marvel, non solo di quelle mutanti.
Dopo la morte del personaggio originale, anche quello di Nova è divenuto a tutti gli effetti un ruolo tramandato di padre in figlio: e il quindicenne Sam Alexander incarna il classico archetipo marvelliano dell’adolescente allo sbaraglio che si ritrova investito suo malgrado di poteri straordinari, e quindi di responsabilità oltre la sua portata, di decisioni per le quali non è pronto.

Molti dei personaggi della storia appaiono fuori posto, e vengono coinvolti per caso, quando non per errore. A mettere in moto l’intera vicenda è un fraintendimento che non mancherà di far sorridere i fan (una frecciata di Ryan al proliferare delle famiglie supereroistiche nell’universo Marvel) ma non privo di risvolti preoccupanti per i personaggi coinvolti, con un complessivo effetto tragicomico. La storia sembra poi procedere, quasi suo malgrado, con una serie di equivoci ed errori anziché con uno sviluppo progressivo.
Un sovvertimento che non risparmia le scazzottate, nelle quali l’azione pare sempre montare fino a un parossistico tutti-contro-tutti, salvo risolversi in modo inatteso e magari non violento (incluso, in un momento cruciale, un colpo di scena fuori scena e sminuito dallo stesso protagonista). D’altro canto, nella sua totale mancanza di poteri offensivi, l’Extinction Team di Ciclope sembra peculiarmente male assortito: tre gemelle telepati, un mutaforma, un guaritore, una manipolatrice del tempo… anche considerando la telecinesi di Magik e la telepatia della Frost (per inciso, questa abbondanza di telepati serve forse a riempire il vuoto lasciato da Charles Xavier e Jean Grey?), l’unico in grado di attaccare un eventuale assalitore rimane proprio Ciclope, che non a caso viene neutralizzato quasi immediatamente; mentre il potere di Fabio Medina di produrre sfere d’oro verrà piegato ad un uso meno convenzionale e molto più spassoso.
In un quadro già spiazzante, i personaggi più intriganti si rivelano essere quelli secondari: in particolare Monark Starstalker, il Monarca delle stelle, una nemesi tormentata, insicura, piena di risentimento per quanto ha perduto e perennemente sull’orlo della disperazione per aver disatteso le aspettative di un oscuro mandante: un armatore che ha fatto fortuna vendendo armi nientemeno che all’impero stellare Shi’ar, e che a sua volta si rivela essere nient’altro che un vecchio incapace anche solo di reggersi sul water.
Una storia in cui l’autorità viene ripetutamente disattesa e ignorata, in cui gli adulti sono impotenti, incapaci o irrilevanti, e delegano agli adolescenti responsabilità e decisioni. Dopo aver assistito con aria assente all’epilogo della vicenda, Nova chiede al più esperto Stark se non sia opprimente che lo spazio sia infinito; ed è inevitabile immaginare che si stia chiedendo se siano senza fine anche l’impotenza, la perdita, il dolore.
L’avventura è conclusa, ma il finale è aperto, e non ci sono risposte né certezze: there’s no end in sight.

Sean Ryan
Gli incredibili X-Men, Iron Man, Nova: Senza fine (2014)
disegni di Ron Ackins, Rahmat Handoko, John Timms
pp. 96, €4,3
Panini Comics, 2015

Giudizio: 3/5

Marco Lodoli, Isole: Guida vagabonda di Roma

Pubblicato finalmente il 23 febbraio 2015 su La Balena Bianca.

Chi d′isole ferisce

La mia città, d’elezione se non di nascita, è Venezia: lì ho frequentato per più anni di quanto fosse strettamente necessario una facoltà rinomata, e lì sono tornato mille volte anche per diletto, mio e altrui, quando mi è capitato di accompagnare amici in visita con quello spirito di continua (ri)scoperta tipico dei luoghi magici. È la città che (e dove) più ho vissuto, come cittadino acquisito e come turista; quella che più amo, tanto da farne il paragone delle altre: unità di misura forse inappropriata o fuori scala, ma che certo non era tale per il Marco Polo de Le città invisibili calviniane.
Venezia, per quanto possa sembrare paradossale data la sua natura labirintica, è anche la città che ho imparato a conoscere meglio, calcando i masegni mentre volavo da un’aula all’altra e vagabondando tra le calli nelle giornate libere. Inevitabile farsi accompagnare da una guida, e inevitabile desiderare di conoscere la città anche attraverso la pagina stampata. L’esempio migliore è Corto Sconto, guida sui generis compilata dai collaboratori di Hugo Pratt e randagia fin dal titolo: un gioco di parole sulle corti sconte disseminate nella città e sullo spirito curioso e anticonformista necessario a scovarle (sempre più spesso le corti sconte, come del resto tutto quanto, stanno diventando Proprietà Privata, recintata e inaccessibile; ma questo è un altro discorso, o forse no). Un testo quindi che si compiace d’indicare the roads less taken e le bellezze meno appariscenti della Serenissima.

Una guida intitolata “Isole” dovrebbe, a buon diritto, essere dedicata a Venezia, o semmai a Stoccolma; e in entrambi i casi avrebbe gioco facile a catturare la mia attenzione. Invece è un libro su Roma, e le isole in questione non sono letterali, ma quelle che in senso neppure tanto figurato permettono di “fuggire via dalla pazza folla”, dal “blocco di lamiere frementi” in cui “sentirsi come criceti fra le spire d’un serpente di metallo”. Isole, dunque, circondate non dall’acqua, o dal liquame che riempie i canali di Venezia, quanto piuttosto dal traffico, dallo stress, dai romani.
E fin da subito il paragone è impietoso: perché a Venezia via d’acqua e di terra (o insomma, le migliori approssimazioni disponibili) si escludono a vicenda, e per quanto il moto ondoso possa essere problematico non ci sarà mai il rischio d’essere investiti; e la quiete, la tranquillità, perfino il silenzio sono sempre a un passo, se si evita il circuito del turismo a tappe forzate. E se pur Lodoli ammette che “l’anima della nostra città è liquida”, se immagina via Veneto “come un placido fiume che scorre in salita”, se arriva a citare Montaigne quando osserva: «di Roma resta solo il Tevere che fugge verso il mare. Ciò che è solido viene distrutto dal tempo, e ciò che scorre resiste»; seppure Lodoli abbia queste illuminazioni, l’impressione è che scaturiscano proprio dalla coscienza di un’inadeguatezza di fondo.
Per compensare, l’orgoglio romano ricorre infallibilmente al meccanismo difensivo di routine: il caputmundismo, declinato qui nella versione de noantri. Insieme ad infinite altre cose, Roma vanta infatti “l’unica fontanella per cani di tutto il mondo”, con millanteria lapalissiana dal momento che ce n’è almeno una, che io sappia, perfino a Treviso, di fronte alla biblioteca comunale: talmente bassa da risultare inaccessibile a qualsiasi bipede più alto di un kiwi, e raggiungibile oltretutto solo dopo aver sceso alcuni gradini (pertanto off-limits anche per Brunetta). Ora, io dubito che quella di Treviso sia l’unica altra fontana per cani esistente al mondo. Ma naturalmente i romani potranno nondimeno sostenere d’avere la più bella, antica, preziosa, grande e, in mancanza d’altro, pia del mondo.
Certo, il mio è campanilismo. E in materia di campanili, se non altro, bisogna ammettere che Roma è imbattibile. Perché sopra, dietro, accanto, dentro qualsiasi cosa, a Roma c’è sempre una chiesa. Chiese, chiese infinite; sicuramente più dei ponti di Venezia, che, anche a contare quelli doppi o tripli, sono di certo meno di cinquecento. Un brulicare di santi, denominazioni e attributi che, a quanto pare, nemmeno gli utenti stessi riescono a ricordare; una moltitudine degna del politeismo più massimalista, e che in sé è già barocca:

cieli grondanti di cherubini e santi, firmamenti sovraffollati di creature aggrappate alle nuvole, stormi d’immagini pensate per sbalordire e raccontare che la vita è un teatro mirabolante dove tutto si tiene per imperscrutabile volontà divina.

In un simile contesto, va a merito di Lodoli infilarsi “dietro l’altare maggiore”, “nella cappella in fondo a sinistra”, “superando una porticina quasi sempre aperta”, ovvero negli angoli nascosti, alla ricerca, aridaje, di “una delle più grandi meridiane del mondo, probabilmente la più bella”, dei “più straordinari mosaici della scuola preraffaellita”, e di altri superlativi interplanetari. Va a suo merito anche sapersi smarcare dai superlativi, e all’occorrenza saper trovare la bellezza, l’emozione, il satori anche nella modestia di un quartiere popolare o di una piccola bottega. Ad esempio le tre sarte, moderne Moire, che pubblicizzano «rammendi invisibili» e da decenni “sono le vestali della continuità e del rimedio”.

Andrea Zanzotto afferma che la missione del poeta è di restaurare il vuoto che c’è nel mondo attraverso la trama dei versi, «perché all’inizio c’è il vuoto, la negazione». Le rammendatrici di via Fontanella Borghese fanno lo stesso lavoro, piegate alla luce fissa di una lampada ristabiliscono con gli occhi attenti e gli aghi laboriosi la compiutezza d’una stoffa. […] Il poeta tenta con le parole di riavvicinare lembi lontanissimi, di riparare il danno dell’esistenza – e le tre signore cuciono incessantemente. Il loro mestiere ha il senso stesso di ogni arte che, al culmine della sua virtù, sparisce per lasciare il posto alla grazia trasparente della perfezione.

In altre parole, le artiggiane della qualità.

Il libro è sottotitolato “Guida vagabonda di Roma” e si apre con queste parole: “Scantonare, ecco cosa ci piace fare”. Nello spirito di Corto Sconto, Lodoli sa bene che perfino nella città eterna “l’eccezionalità […] sta molto nei suoi capolavori seminascosti, in quei tesori che vanno cercati e scovati nella penombra di un vicolo o di un chiostro”; sa che per innamorarsi di un luogo bisogna incontrarlo a tu per tu, ed è necessario che “l’individuo e il capolavoro si veng[a]no incontro silenziosamente, quasi di nascosto, come in un primo appuntamento amoroso”. Per quanto abbia poi la tendenza a prendere la questione delle isole del traffico fin troppo alla lettera, e finisca per cantare le lodi di alberi solitari sul ciglio della strada e benzinai. Ma in fin dei conti queste ‘isole’, prima di venire raccolte in volume, erano apparse sulle pagine romane de La Repubblica, e più d’una conserva ancora traccia di questo carattere occasionale, contigente, negli accenni alle stagioni o alla cronaca.
D’altro canto sarà ormai chiaro, anche dai meri stralci riportati, che Lodoli è un prosatore superbo, un maestro intagliatore di frasi raffinate e mai prolisse. Come la città cui è dedicato, e di cui fortunatamente, accortamente, non condivide l’intrinseca bulimia, il volume riserva nuove sorprese a ogni svolta, a ogni pagina; tanto che non sembra fuori luogo abbandonarsi anche solo al semplice piacere della lettura, specialmente se, come nel mio caso, i luoghi citati dall’autore rimangono per buona parte luoghi di carta, perché i giorni trascorsi a Roma sono stati pochi e affollati.
Nelle parole di Lodoli, alla fine ci si ritrova ammaliati dalle grazie della città, e incapaci di portarle rancore; perché

da sempre Roma viene paragonata a una donna bene in carne, un po’ madre e un po’ zoccola, generosa nell’accogliere tra le tette dei suoi colli figli e figliastri. È un abbraccio bonario, indulgente, che in breve smorza gli incendi anche nelle coscienze più arroventate. Qui tutto s’arrotonda, le vite s’allacciano in un cerchio, pochi giorni e le polemiche si trasformano in pacche sulle spalle, le inimicizie in paciose tavolate.

E insomma, via, volemose bene.

Marco Lodoli
Isole: Guida vagabonda di Roma
pp. 148, €10
Einaudi, 2005 e 2008

Giudizio: 3/5.

Kenny Barron & Dave Holland, The Art of Conversation

Pubblicato il 21 gennaio 2015 su La Balena Bianca.

Kenny Barron e Dave Holland, rispettivamente pianista e contrabbassista, sono due decani le cui discografie eccedono la lunghezza di questo articolo, giustificando il cliché di “enciclopedie viventi del jazz”. Il loro sodalizio, iniziato nel 2012, ha suscitato a buon titolo aspettative molto alte: entrambi i musicisti vantano una tecnica sopraffina e la capacità di adattarsi a contesti musicali disparati; inoltre i due, quasi coetanei (Barron è del ’43, Holland del ’46), hanno collaborato più volte nel corso delle loro lunghe carriere.
Il loro tour del 2014 è stato inaugurato a Treviso nella data simbolica del 30 aprile, la giornata che già da tre anni l’UNESCO ha ufficialmente nominato International Jazz Day. In un giorno quindi ricco di eventi, che peraltro conclude il più ampio programma del Jazz Appreciation Month, il concerto di Barron e Holland spicca comunque come un evento di primissimo piano a livello non solo nazionale; assicurarsi la loro presenza è stato un colpo di notevole bravura da parte degli organizzatori, che conferma il mutato clima culturale in città. Questo è infatti il primo Jazz Day trevigiano, sebbene la Marca conti altre manifestazioni dedicate al jazz, fra cui Sile Jazz (anche questa nata nel 2012) e la programmazione del Teatro Comunale.
Proprio il Comunale, per l’occasione gremito, ha ospitato il concerto del duo. In quell’occasione è risultato evidente anzitutto il puro piacere di suonare insieme sotteso al progetto: i due veterani non hanno a questo punto bisogno di dimostrare nulla, e possono lasciare che siano le rispettive discografie a parlare per loro. E l’amalgama che hanno raggiunto è ammirevole: lo stile limpido e cristallino di Barron lascia trasparire senza coprirlo quello pieno e rotondo di Holland, che a sua volta satura il sound complessivo. Un connubio perfetto e sapiente. È inoltre evidente che i due interagiscono in modo paritario, superando la gerarchia fra strumento solista e sezione ritmica. A più riprese anzi è il bassista a lanciarsi in assolo torrenziali, tanto corposi da non necessitare a volte nemmeno la partecipazione del pianoforte, secondo l’insegnamento impartitogli quarant’anni fa da Sam Rivers: “Don’t leave anything out – play all of it” (nella prima sessione pubblicata a nome di Holland, il capolavoro free jazz Conference of the Birds del 1973, lo stile viscerale di Rivers si contrapponeva a quello più cerebrale dell’altro sassofonista, Anthony Braxton).
La scelta radicale di ridurre l’ensemble a un duo spinge Holland e Barron, in un certo senso necessariamente, a operare al di fuori di una gerarchia preordinata, assumendo a turno il ruolo di accompagnatore, per sopperire all’assenza di altri strumenti; la collaborazione è pertanto improntata a un dialogo a due, con un gioco di contrappesi visivamente spiazzante: al misurato ed elegante stile del corpulento afro-americano Barron risponde quello più aggressivo del longilineo britannico Holland, che in alcuni frangenti si muove sul palco quasi a voler prendere la rincorsa prima dell’ennesimo attacco alla tastiera.
Non si tratta quindi (inch’allah) di un trio jazz, nemmeno uno da cui sia stata chirurgicamente asportata la batteria; in questo contesto, ancor prima che un terzo strumento dotato delle proprie peculiarità timbriche, un batterista sarebbe stato una terza personalità, destinata inevitabilmente ad alterare le dinamiche del dialogo.
A fine concerto, Holland aveva rivelato che la collaborazione si sarebbe concretizzata in un disco, la cui data di pubblicazione era prevista per l’autunno seguente. L’uscita è stata successivamente confermata per la rediviva Impulse! Records il 14 ottobre, e il titolo non poteva essere che The Art of Conversation.
Il disco conferma tutte le qualità dimostrate dal vivo, ed è un piacere vederlo pubblicato dalla storica casa discografica, che nel corso del 2014 ha ripreso l’attività pubblicando tra le altre uscite un duo di Jim Hall e Charlie Haden e un concerto finora inedito di John Coltrane.
Holland e Barron firmano rispettivamente quattro e tre brani, a riprova del fatto che si tratta non solamente di interpreti sopraffini ma anche di navigati compositori. Consultando i credits si scopre così che, in maniera pressoché sistematica, il privilegio dell’assolo è riservato a ciascuno nei brani composti dall’altro: nell’iniziale “The Oracle”, brano che già aveva dato il titolo al disco di Holland con Hank Jones e Billy Higgins, il bassista stende un tappeto armonico che prelude all’entrata in scena del piano, quietamente maestosa. Allo stesso modo, la splendida “In Your Arms” diventa un’ottima occasione per mettere in mostra l’asciutto lirismo di Barron. Nella barroniana “Rain” è invece il basso a ‘cantare’ la melodia, e il risultato è struggente.
Anche su disco, il connubio è impeccabile. Gli assolo si alternano senza strappi e spesso l’impressione è che i due non stiano improvvisando su di un tema quanto conducendo un discorso: ciascuno con la propria voce, personale e inconfondibile, ma prestando attentamente ascolto all’altro.
E il dialogo si allarga idealmente ai colleghi con cui hanno condiviso il palco nel corso delle rispettive instancabili e prolifiche carriere. Holland ha dedicato un brano al trombettista Kenny Wheeler, con cui aveva suonato a lungo e che è venuto a mancare questo autunno; “Waltz for Wheeler” sembra voler mascherare ripetutamente la propria cadenza dispari. Al centro dell’album compare “In Walked Bud”, classico monkiano a sua volta dedicato a Bud Powell. Monk è un’influenza duratura per Barron, che aveva militato nella tribute band Sphere e anche per i dischi a suo nome aveva usato titoli quali Green Chimneys. Già all’epoca mostrava di aver assorbito la lezione di Thelonious in maniera tutt’altro che pedissequa, tanto che il brano più ‘monkiano’ di The Art of Conversation risulta essere un originale barroniano, “The Only One”, che Frank Alkyer per Down Beat identifica correttamente come un omaggio a “Well You Needn’t”. Qui e lì tra le note spunta un’influenza latina, che già Jelly Roll Morton prescriveva come ingrediente fondamentale del jazz, e che secondo gli autori della Penguin Jazz Guide Barron ha ereditato dal periodo trascorso nel Dizzy Gillespie Quartet. Queste conversazioni a distanza con i maestri si concentrano nella parte centrale del programma; è il caso della cover di “Segment” di Charlie Parker, una scelta forse sorprendente ma eseguita con le debite qualità di precisione e velocità mozzafiato.
“Day Dream” di Duke Ellington e Billy Strayhdorn conclude l’album con un’atmosfera rarefatta e delicata.

Il termine più frequente per definire l’ambito in cui opera Barron è ‘mainstream’, che è accurato ma non rende giustizia alle doti di cui qui si è cercato di dare conto. Holland proviene dalla stessa scena avantgarde inglese di Evan Parker e Derek Bailey, ed era poco più che ventenne quando entrò nel gruppo di Miles Davis (partecipando nel giro di un paio d’anni a capolavori del calibro di Filles de Kilimanjaro, In a Silent Way e Bitches Brew). Ma tanto i pedigree di questi due artisti sono diversi, pur all’interno dello stesso genere musicale, quanto la lista delle loro collaborazioni è folta; non stupisce che abbiano deciso di condividere il palco, né che i risultati siano di qualità così alta. C’è da sperare che, dopo il recente tour invernale, decidano di trovare il tempo d’incontrarsi ancora e magari, in futuro, di tornare in studio a registrare.

Kenny Barron e Dave Holland
The Art of Conversation
Impulse!, 2014

Giudizio: 4/5.

Valerio Magrelli, Geologia di un padre

Pubblicato il 7 gennaio 2015 su La Balena Bianca.

Nel fine settimana dal 17 al 19 ottobre 2014 si è tenuta a Treviso la prima edizione del Carta Carbone, festival letterario dedicato ad “autobiografia & dintorni”. Affiancandosi a quelle consolidate della vicina Pordenone (il Dedica Festival e PordenoneLegge), la manifestazione ha confermato dopo vent’anni di desertificazione leghista una rinascita culturale del capoluogo della Marca, come testimoniato già a fine aprile da un International Jazz Day di rilevanza davvero internazionale. I primi passi del neonato festival sono stati infatti fermi e sicuri, sia nella scelta di ospiti di grande livello che nella collaborazione con alcune tra le migliori realtà cittadine, quali la storica libreria Canova, la Biblioteca vivente e il Treviso Comic Book Festival, di cui nel 2013 si è celebrato il decennale. Da segnalare inoltre l’inaugurazione di un concorso letterario, congiuntamente con l’editore Kellerman. Speriamo che il bebè cresca in salute, e che in futuro possa avere dei fratellini.

A degna conclusione della tre giorni, il medioevale Palazzo dei Trecento ha ospitato un incontro con Claudio Magrelli, affermato poeta e smaliziato prosatore a tempo perso; oltre che, a tempo pieno, docente di letteratura francese all’università di Cassino.
Egregiamente introdotto e spalleggiato dal collega Stefano Brugnolo, anch’egli docente universitario e qui in veste di presentatore dopo essere stato a sua volta ospite del festival, Magrelli ha esordito per la verità nella maniera più spiazzante, con la lettura di un brano sul padre, che in età senile aveva sviluppato un’ossessione per la defecazione e, ormai morente, si sforzava di espellere nientemeno che la vita: “Mio padre cacava se stesso”.

Ma procediamo con ordine. Un festival letterario a tema autobiografico non sembra certo un contesto insolito per un poeta; ma quale testo è chiamato a presentare nella sua veste di prosatore?
Per un decennio, Magrelli aveva raccolto una serie di appunti sul padre già malato, depositandoli in una cesta come altrettanti pulcini che, pigolando, esigevano la sua attenzione. Alla morte del genitore, Magrelli decise di prendersi cura di quella nidiata. Ma che forma dare ad un insieme eterogeneo di appunti, specialmente se per propria ammissione si è incapaci di elaborare una trama? L’avversione, o la semplice incompatibilità, con la narrativa è del resto un tratto non insolito fra i poeti, e tanto in passato quanto in epoca più recente illustri colleghi si sono confrontati con la prova della prosa scegliendo la via della saggistica, dell’aforistica, del memoir. Di qui probabilmente la decisione di Magrelli di ‘ordinare’ i foglietti sparsi in 83 paragrafi, quanti gli anni di vita del padre Giacinto, per dare ‘forma’ ad una vera autobiografia del padre, sulla scorta dell’Autobiographie de mon père di Pierre Pachet. Il risultato è la Geologia di un padre, pubblicata nel 2013 da Einaudi nei Coralli e ristampata l’anno successivo in edizione tascabile.
I termini ordine e forma sono qui usati fra virgolette perché, nell’abbracciare i propri punti deboli fino a farne una poetica, l’autore rifiuta di seguire una sequenza logica, procedendo piuttosto in maniera episodica, per associazioni di idee e non di rado per salti logici, quando non per semplice capriccio: nel corso della presentazione ha svelato di aver volutamente assegnato il brano con cui aveva esordito al paragrafo 15, intitolato non a caso Le Idi, che costituisce l’episodio più duro e pesante della collezione; in un certo senso il suo nadir. Per contrappeso, il paragrafo seguente è il più lieve, oltre che il più breve: “Il figlio come un filo che deve entrare nella cruna della propria crescita. Il padre come un filo che va sfilato”.
Ecco l’intento programmatico di Magrelli, uomo già maturo (ad un certo punto si domanda a che età si smette di essere orfani) che tenta di fare i conti con la figura paterna. Anzitutto con la sua dipartita: i paragrafi inaugurali sono dedicati, prosaicamente, all’incombenza della sepoltura, in una tomba di famiglia che si scopre allagata per l’incuria. Magrelli si trova suo malgrado nella posizione di dover fare i conti con le incongrue usanze funebri nostrane:

In molte nazioni la spoglia viene affidata alla terra, in una semplice cassa di legno, per poi filtrare via, sciolta nell’humus. Da noi, al contrario, i morti sono accolti in un’architettura che impedisce loro di svanire.
Ospitati dentro caseggiati di pietra, separati dal suolo, sono riposti, sì, entro bare di legno, ma bare foderate di zinco.

A partire dalle spoglie dei parenti, ciascuno “torrefatto” nella propria bara, inizia una ricostruzione genealogica che si dirama nel passato fino ad una nonna incartapecorita “scesa dai monti della Ciocaria”, dal Lazio meridionale. Magrelli non ha mai visitato Pofi, il paese d’origine del padre, ma il suo spirito accademico lo spinge a scovare testi che, spesso affidandosi a teorie, ne ricostruiscono origini e fortuna: un sonetto dedicato a Pofi è attribuito a Giambattista Marino, circostanza che è facile immaginare irresistibile per il Magrelli poeta. Nell’archeologica ricerca del padre, l’autore s’imbatte nella notizia dell’importante ritrovamento dei resti di un ominide preistorico, prontamente ribattezzato Uomo di Pofi. In modo tanto incongruo quanto naturale, l’indagine genealogica diventa pertanto geologica: “Eccolo, l’Uomo di Pofi: era mio padre! È lui che sto cercando, mentre mi limito a studiare da lontano la sua culla preistorica”.
Valerio cerca il padre Giacinto, e il viatico scelto per ritrovarlo, “nella notte della mia infanzia, tra 400.000 e 300.000 anni fa”, è rigorosamente quello della memoria. Anche di fronte alle “agende dei suoi ultimi vent’anni”, documenti indispensabili per quello che ormai è chiaramente uno studio approfondito (testimoniano tra l’altro la succitata ossessione), Magrelli conclude: “Non mi importa nulla degli archivi, e provo nausea per i documenti. L’unico documento sono io: la carta moschicida del ricordo”.
E dalla memoria riemergono allora decine di episodi. Nei più recenti il padre compare ormai anziano, progressivamente sempre meno capace di controllare il corpo e, con l’avanzare del Parkinson, anche la mente; “un Anchise a rotelle con un Enea ortopedico”, che ha bisogno delle cure del figlio ma finisce per confonderlo con il fratello maggiore, e non sa capacitarsi di averlo superato in vecchiaia: «Perché sei più giovane di me?». Nei ricordi d’infanzia dell’autore, il padre appare in larga parte limitato dalle proprie qualità e ingigantito dai propri difetti: sfrontato, iracondo, completamente inetto negli affari—tanto che il figlio, come ha rivelato a Treviso, era giunto alla conclusione che fare la cosa giusta significasse semplicemente prendere le decisioni opposte a quelle del genitore. E scavando ancora più indietro, il padre è protagonista di storie che lo stesso Magrelli conosce solamente per averle sentite raccontare. In primo luogo i suoi ricordi di guerra: una fucilazione nei Balcani; un controllo dei nazisti scampato fingendosi studente di medicina anziché di ingegneria; e su tutti il sopralluogo dell’ippodromo di Capannelle che, inevitabilmente, impunemente, diventa una corsa a briglia sciolta, in piena guerra.
Episodi citati proprio per la loro peculiarità, e tanto più rappresentativi quanto più risultano sopra le righe. È lo stesso Magrelli a confessare in apertura:

Esagero. Esagero e falsifico. […] Eppure mi viene spontaneo polarizzare gli elementi della sua vita, accentuandone i tratti e spingendo verso la caricatura. Così facendo, infatti, mi sembra di assecondare il suo carattere, mettendone a nudo le linee importanti. Più vero del vero, insomma.

Un ritratto per certi versi schizoide, costruito a livello testuale sulla sovversione di materiali colti. “Ulisse con i Proci, o Sandokan, Mandrake, erano pallide prefigurazioni di quanto poteva mio padre”: dalla letteratura epica a quella d’avventura fino ai fumetti, in un paradossale anticlimax che ha l’unico scopo di elevare la faccia tosta di Giacinto a statura sovrumana. Similitudini sbilenche, la cui sproporzione serve non già a creare l’effetto comico, come si sarebbe forse spinti a credere in un primo momento, ma per l’appunto a restituire una figura che partecipa dell’epica come della caricatura. Emerge da passi come questo la cultura non solo accademica di Magrelli, e soprattutto la sua maestria, evidentemente frutto di lunga riflessione, nel rimaneggiare testi propri e altrui. Il volume fa uso continuo di citazioni e riferimenti letterari, riportando espressioni, frasi e a volte interi paragrafi: il 69 è un’unica citazione da Giovanni Testori. Al contempo la nota finale spiega che Geologia di un padre “costituisce l’ultimo pannello di una serie”, un quadrittico che “recupera brani e brandelli di opere precedenti, riportandoli in circolo, innestandoli su un nuovo tronco narrativo”.
Frutto della medesima abitudine alla riflessione è anche il principio, mutuato da Octavio Paz, che l’esempio dei maestri indichi non una possibile strada da percorrere, quanto piuttosto una strada preclusa, perché loro per primi l’hanno esplorata: la loro eredità non è quindi di darci una scelta in più, ma una in meno. Un simile precetto spiegherebbe la natura fortemente idiosincratica e sui generis del testo, un memoir i cui brevi paragrafi rasentano l’aforisma e il poema in prosa. Forme letterarie che, come la poesia, procedono per immagini e illuminazioni, e che nelle mani di Magrelli divengono eminentemente figurative, esemplari nella loro plasticità; fino ad alcune immagini composite, costruite con elementi a prima vista inconciliabili: gli “occhi-denti”, la “nonna-sigarillo”.

Il bilancio è di una perdita irrimediabile, e non solo per chi rimane: agli occhi del padre defunto, sostiene l’autore, è infatti il figlio ad essere morto; ciascuno ha perso l’altro, e di conseguenza una parte di sé. A scomparire è stata la loro coppia, e “ormai siamo spaiati, definitivamente”.
“Lui continua a mancare”.

A conclusione delle riflessioni su di un testo così fortemente patrilineare, è lecito chiedersi se e come compaia la figura materna. La madre viene menzionata una sola volta, nel paragrafo 72 (facile a questo punto supporre che la scelta del numero non sia casuale), dove viene narrato della sordità che l’aveva colpita nella vecchiaia e dell’Alzheimer di cui alla fine anche lei era stata vittima. L’autore le dedica una Ninna nanna e conclude citando un brano di Montaigne sulla morte volontaria, che lui considera la più bella perché, al contrario della nascita, è una libera scelta dell’individuo. Il paragrafo si chiude con un link: www.dignitas.ch.
Null’altro, e del resto ogni altra parola sarebbe superflua.

Valerio Magrelli
Geologia di un padre (2013)
illustrazioni di Giacinto Magrelli
pp. 168, €10
Einaudi, 2014

Giudizio: 3/5.

Joe Bensam, Batman and Wolverine: the Stories of the Superheroes

Batman and WolverineThe recent opening of a much needed new comic bookstore in town has unleashed my latest ongoing superhero fever, which in full multimedia madness includes compulsive use of my comics apps and a sumptous run-through of the entire X-Men film franchise. In the middle of such activity, I began looking for something suitable to feed to my kindle, and stumbled upon this ebook.
The first question that springs to mind obviously concerns the peculiar, cold-fusion pairing of two characters that inhabit entirely separate narrative universes, apart from the occasional crossover. Common traits between the two are surely easy to spot: they’re (the) good guys with a dark side, to the point of redefining the domain of ‘good’. Batman and Wolverine also happen to be the stars of recent (and, in the former’s case, past) successful film sagas that further increased their fan bases — i.e. the pool of potential readers into which this ebook taps (a similar book on Superman and Spiderman actually appears to have been written by the same blokes). Yet these are for all purposes two different slim ebooks stitched together, and the result never even tries to work as a whole.
The text, evenly split between the two subjects, offers no delucidations on the motives behind its editorial choices; there is in fact no general introduction, and the reader is plunged without ado into whichever half of the book he prefers (full disclosure: I am a confessed Marvel fan), each allegedly detailing the story of one character from his origins to the most recent developments at the time of publication, in 2012. Don’t expect any literary analysis on the narrative choices of their creative teams, or perhaps even a comparative study of their personalities: the ebook sticks to intra-narrative facts. This is probably not surprising for a book explicitly designed, as per subtitle, as an introduction for newcomers into the extensive and intricate chronologies of two of comicdom’s most prominent representatives. And on the other hand, in all likelihood even long-term fans would enjoy an engaging, heartfelt recapitulation of their paladin’s highs and lows.

And that is precisely where this book fails miserably: plagued by poor language, peculiarly bad editing, repetitions, endless errors and misprints (including, maddeningly, the names of many characters) it fails to draw the reader into the otherwise compelling adventures of the two heroes. Although, to be perfectly fair, the rewriting of such eventful lives into a blood-drained prose that drags along uneventfully has to be reckoned as a feat in itself.
It’s very sad: this could have been an excellent and enjoyable essay, possibly the definitive guide to both heroes, and instead turns out to be merely a curio that fans will flip through more in the cheeky search for what the author has got wrong than for any other reason. I don’t think newbies will have the stamina to see this through.
Moreover, even though comic book issues are mentioned (rarely), there are no references given for the events narrated, and no footnotes to speak of; i.e. this is not a scholarly research. Not incidentally, the most interesting chapters are those detailing the two characters’ origins, which feature the personal recollections of their authors; and the direct words of real writers and artists are a very welcomed intermission to the plain, repetitive prose of the surrounding chapters.
On his part, the author offers such insight as “why would you not be [fascinated by Wolverine]? He is short, hairy, mean and has redefined the meaning of claws for comic book characters”. Wow, that’s avantgarde.

Considering how handy the chronologies of such prominent superheroes are (haven’t Marvel and DC Comics published their own guides?) and how easy self-publishing through Amazon, this could well be considered the work of a moderately obsessive teenage fan, if the author himself did not confess to being “just another fan whose actual age is now older than Batman’s (who perpetually remains 29 forever)”. And please note, not just perpetually, but forever too!

The caped crusader and the mutant with sideburns deserve more than this.
But Amazon is giving it away for free, which explains a lot.

Joe Bensam, Dean King
Batman and Wolverine: the Stories of the Superheroes
pp. 190, € whatever Amazon is charging at the moment
Platinum Publishing, 2012

Giudizio: 1/5

Julie Fogliano, Se vuoi vedere una balena

Se vuoi vedere una balena devi concentrarti completamente sul tuo scopo e non prestare attenzione alle “cose più piccole della maggior parte delle cose piccole”, perché il tuo compito è vasto e possente e sprezza le minuzie; tantomeno devi guardare le rose, “e tutto il loro rosa e il loro profumo”, perché non hai tempo per queste graziose ruffianerie della natura; devi abbandonare la terraferma e non farti distrarre nemmeno dalle nuvole che passano, anche quando assomigliano alle balene; né dai pirati, sebbene chi è appassionato di balene subirà inevitabilmente anche il fascino marinaro di un vascello, vero o immaginato.
Se vuoi vedere una balena devi fissare il mare, e aspettare, e aspettare.
Nell’attesa puoi approfittare dei tempi morti per fare un ripasso di cetologia.

E se questi non sono i primi semi, già in giovane età, della monomania di Ahab…

Questo bellissimo libro mi è stato regalato da qualcuno che conosce le mie preferenze e le mie ossessioni; è il tipico caso della balena, o forse era la montagna, che va a Maometto. Deliziosi i disegni a pastello, una tecnica che mi ricorda l’astuccio pieno di matite colorate che avevo da bambino; ma a commuovermi basterebbe il modo assolutamente artigianale e analogico in cui i colori si sgranano sulla pagina.
E che dire del protagonista, un bimbo di pelo fulvo che passa da una tavola all’altra indossando doverosamente un maglione a righe bianche e blu, da bravo marinaio?

Per la cronaca una balena c’è davvero, ma non svelo di che specie.
Se siete come me, Ahab e il bimbo, allora vorrete scoprirlo da voi, e vedere la balena di persona.
Ahoy!

Julie Fogliano
Se vuoi vedere una balena (2013)
illustrazioni di Erin E. Stead, traduzione di Cristina Brambilla
pp. 40, €12,5
Babalibri, 2014

Giudizio: 4/5

Giorgio Santucci, Femdom

All’epoca della pubblicazione, nel maggio 2009, ricordo di essere rimasto colpito dal titolo diretto ed esplicito, oltre che dal dettaglio al contempo aggressivamente fetish e graficamente stilizzato della copertina. La curiosità iniziale è rimasta viva, e nonostante gli anni trascorsi mi sono finalmente convinto ad approfittare della mia biblioteca comunale, che ha una copia del volume nella sezione fumettistica del catalogo. La prova della lettura rivela che il titolo non è l’unico dettaglio diretto né di certo il più esplicito dell’opera; e che in compenso è piuttosto fuorviante. Le quattro storie qui raccolte percorrono strade diverse da quelle che il titolo farebbe intuire. L’episodio iniziale, che dà il titolo all’intero volume, mi ha ricordato più che altro il double feature Grindhouse: ragazze emancipate e prosperose, umorismo splatter e inseguimenti nel deserto, non mancano nemmeno i mutanti contagiosi e arrapati; il feticismo poi è riservato ai motori più che a tacchi e fruste, e anzi mancano del tutto certe preferenze tipicamente tarantiniane. Piuttosto che di un’influenza diretta (Grindhouse precede Femdom di un paio d’anni) immagino che per Santucci si tratti in effetti di riferimenti culturali in comune con la premiata ditta Tarantino & Rodriguez; l’onnipresenza di carne e polpa umana in bella vista potrebbe infatti venire definita pulp, o in considerazione dei bruschi maneggamenti cui è sottoposta dovrei forse dire ‘palp’.
Ma qui cade l’asino: i riferimenti di Santucci, il suo genere e i suoi canoni non sono i miei. Ne ho avuto conferma leggendo la recensione di un evidente ammiratore sul blog Evil Monkey Says… (che vanta tra l’altro un contatto diretto con l’autore: complimenti), dalla quale risulta immediatamente chiaro che ad essere fuori luogo sono io: non conosco nessuno dei nomi che vengono citati nel pezzo per contestualizzare l’arte di Santucci. Ed è lui stesso, in uno dei feedback alla recensione, a confermare uno dei sospetti suscitati dalla lettura di Femdom:

[F]accio spesso il parallelismo tra le mie storie e i pezzi metal, io son cresciuto con quella musica e pur non capendo una mazza delle parole la loro potenza mi giungeva inalterata, anzi forse proprio per questo amplificata, è musica potente e veloce come un proiettile, senza soste o esitazioni, esattamente lo stesso approccio che ho nel realizzare le mie cose.

Le storie di Santucci, se non altro queste storie, ma a giudicare dalle sue parole pure le altre, sono l’equivalente fumettistico dello heavy metal. Trasposizione più che riuscita, per quanto posso giudicare, e quindi chapeau; senonchè il metal non mi piace, ad esclusione del drone doom, il cui sviluppo lentissimo e pesante è per inciso l’esatto opposto dell’azione ipercinetica e a tavoletta di Santucci. Full disclosure: per il mio compleanno mi sono regalato una graphic novel su Coltrane, i miei riferimenti sono quelli.
Qual è dunque il mio problema con queste storie? Anzitutto l’assenza delle stesse: lo sviluppo narrativo non c’è, o è ridotto al minimo, e l’enfasi è tutta sull’azione, “senza soste o esitazioni”, wham bam, senza il tempo (o la necessità) di chiedersi da dove sia spuntato il ciclope gigante e allupato. Il fatto che questa sia espressamente la poetica dell’autore è un’aggravante, dal mio personale punto di vista. Nel dare un giudizio e specialmente un voto provo ad essere sempre obiettivo: ad esempio A Portrait of the Artist As a Young Man non è fra i miei romanzi preferiti, ma non posso negare che si tratti di un capolavoro, al di là dei facili ossequi. Ma in questo caso il mio problema è con quanto non c’è.
La recensione suddetta si apre con queste parole:

Santucci avrebbe dovuto dare alle stampe Femdom senza i testi. Perché nella sua arte c’è già tutta la narrazione necessaria, con il fumetto che torna a essere comunicazione visiva pura. Il tratto dell’autore è violento, nervoso, ipercinetico. […] Santucci dovrebbe abbandonare del tutto il contenuto per dedicarsi completamente alla forma, descrivere incessanti sequenze marziali o rocambolesche fughe da chissà quale incubo.

Tutto vero; descrizione più che accurata: è lo stesso autore a riconoscere che i dialoghi sono spesso superflui, se non per dare in più occasioni una sferzata umoristica (ci arriverò a breve). La mia prima impressione a lettura ultimata per la verità era ancora più drastica, e meno lusinghiera: ho pensato che l’autore avrebbe potuto pacificamente abbandonare la narrazione tout court, anche quella per immagini, e dedicarsi all’illustrazione pura e semplice. Ci sono tavole di grande effetto e suggestione, ma la loro presenza è talmente pretestuosa che tanto varrebbe, mi pare, presentarle come pin-ups.
E proprio una delle pin-ups che chiudono il volume mi permette di tornare ad uno degli aspetti che in fin dei conti più ho apprezzato: l’umorismo. Thor alle prese con una (avvenente, serve dirlo?) CEO intenzionata a risolvere la crisi finanziaria incamerando le proprietà immobiliari di Asgard; storie incentrate sui testicoli dell’ultimo drago della sua specie; titoli come “L’anarco-insù-erezionalista Vs. la Sbirra Dominatrix Muscle-Goddess” (non scherzo): l’opera è colma di un’irresistibile ironia di dubbio gusto. E del resto il sito dell’autore aveva lanciato il volume in questi termini:

1)
“FEMDOM sarà fuoco per i vostri lombi e linfa per vostro cervello!”

2)
“FEMDOM
increase in penis size of up to 1/2 inch, guaranteed!!
Fatevi un favore,
o fatelo alla vostra donna
o fatelo al vostro uomo
ordinatelo in fumetteria o libreria
ORA!”

3)
“ATTENZIONE, il SUV è solo un paliativo, il membro non ne trae nessuno giovamento,
con FEMDOM garantiamo incrementi volumetrici e performativi!
Arriva l’estate, farcite i vostri slip con FEMDOM!!”

E cos’altro aspettarsi da una collana editoriale intitolata Paracult?

Giorgio Santucci
Femdom
pp. 78, €12
Coniglio Editore, 2009

Giudizio: 2/5