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Halldór Laxness, Sotto il ghiacciaio

Pubblicato il 15 novembre 2012 su Cabaret Bisanzio.

Halldór Laxness ha attraversato l’intero ventesimo secolo (1902-1998) ricevendo il Nobel circa a metà strada, nel 1955. Del 1968 è questo romanzo, un unicum non solo nella sua sterminata produzione (che finalmente sta avendo una diffusione anche in Italia) ma nel canone letterario tout court; tanto da meritare un saggio monografico di Susan Sontag, che Iperborea si concede il lusso di pubblicare come postfazione. La Sontag nota innanzitutto come Laxness mescoli e superi i generi letterari, in un’epoca in cui il postmoderno era ancora nella sua fase pioneristica.
Il ghiacciaio del titolo è quello stesso Snæfell reso celebre da Jules Verne nel 1864 come origine del suo Voyage au centre de la terre e quindi, in senso lato, della fantascienza moderna. In un periodo cruciale tanto per l’immaginario quanto per il progresso scientifico, Laxness gioca a smontare il genere fantascientifico riportandolo alle sue origini di conte philosophique, per poi divertirsi a smentirlo e a sovvertire le aspettative.

“Il Cristianesimo sotto il Ghiacciaio”, come recita il titolo originale, versa in condizioni disperate, stando alle voci che circolano: il parroco non adempie ai suoi doveri ecclesiastici, non fa manutenzione della chiesa che al contrario è stata sprangata; pare abbia perfino consentito il seppellimento di un cadavere nel ghiacciaio, in terra non consacrata. È sposato ma non ha mai consumato il matrimonio, e pare conviva con un’altra donna. Il vescovo d’Islanda incarica quindi un giovane e svogliato studente di verificare queste dicerie inaccettabili; non avendo autorità in materia, egli dovrà limitarsi a registrare quanto gli verrà raccontato dai parrocchiani con la massima fedeltà (come “quel fonografo, o come si chiama”, “lo chiamano magnetofono”) e senza interpolazioni di sorta:

“Non verifichi niente! Se si dicono bugie, bugie siano. Se se ne saltano fuori con qualche superstizione, superstizioni siano! Non dimentichi che normalmente sono poche le persone che dicono più di una piccola parte di verità; nessuno dice gran parte della verità, figuriamoci poi la verità intera. Le parole sono fatti di per sé, vere o false che siano. Quando uno parla, si rivela, sia che dica il falso che il vero”.

Il giovane accetta, mettendo le mani avanti: “Non mi chieda di compiere grandi imprese. Anche perché mi si dice che non si compiono grandi imprese alle tariffe dei funzionari civili”. Nel suo resoconto, che poi è il libro stesso, egli fa riferimento a se stesso in terza persona unicamente come “l’Emissario del Vescovo, EmVe per abbreviazione”. Il testo d’altro canto pullula di considerazioni personali e osservazioni metatestuali.
Perché il viaggio iniziatico di EmVe sotto il ghiacciaio minerà alle fondamenta il suo ruolo paradigmatico di protagonista come giovane esploratore. Le sue domande saranno sistematicamente disattese o evase; il suo ruolo ignorato, con effetti anche comici. Il parroco, Jón Jónsson detto Primus, sembra avere sviluppato un’autentica avversione verso i propri doveri pastorali, tenendosi occupato come tuttofare per la comunità. Una comunità, come nota la Sontag, che è già oltre il cristianesimo, se non è rimasta al paganesimo: convinta che il Ghiacciaio sia il centro del mondo, trova naturale che un vecchio amico e rivale del parroco, Guðmundur Sigmundsson detto Godman Syngmann detto Mundi Mundasson, giunga dalla California per riportare in vita la sua amante e figlia adottiva nonché moglie di Jón Primus, che egli aveva precedentemente tramutato in salmone per poi conservarlo nel Ghiacciaio. Syngmann si servirà di tre bioinductors (“una parola che proprio non sono riuscito a trovare in diciassette vocabolari d’inglese, ma che dovrebbe far parte del gergo quotidiano dei santoni e dei superoccultisti della California”, osserva Emve): un californiano, un indiano e un nativo brasiliano forse cannibale, che si comportano come santoni buddhisti e usano una terminologia new age. Uno di loro suona il liuto con una tecnica addirittura preconizzatrice dei tintinnabuli di Arvo Pärt.
Laxness non teme di contaminare la fantascienza positivista con la propria contemporaneità, inanellando in un ironico anticlimax riferimenti più o meno espliciti all’Età dell’Acquario, alla corsa allo spazio, alla fascinazione per il buddhismo, alla psichedelia (uno dei capitoli più importanti, Intergalactic Communication, ha un titolo degno di un’outtake di The Piper at the Gates of Dawn), perfino alla guerra in Vietnam.

Ma è il personaggio femminile il più affascinante e perturbante del romanzo, la misteriosa ed elusiva Úa: “Sorella della Solveig del Peer Gynt di Ibsen e della Indra del Sogno di Strindberg, Úa è la donna irresistibile che si trasforma: strega, puttana, madre, iniziatrice sessuale, fonte di saggezza. Úa sostiene di avere cinquantadue anni […] ma in realtà è metamorfica e immortale” (ipsa Sontag dixit). A lei è affidato il finale aperto, inatteso e meditabondo di questo capolavoro dai molteplici livelli di lettura.

Halldór Laxness
Sotto il ghiacciaio (1968)
traduzione di Alessandro Storti
pp. 288, €16
Iperborea, 2011

Giudizio: 5/5.