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James Marsh, Man on Wire

Vincitore nel 2009 del premio Oscar come miglior documentario.

Tutto era iniziato nella sala d’attesa di un dentista parigino. Nel 1968 un diciassettenne Philippe Petit nota un’immagine del progetto per il World Trade Center in una rivista e ne rimane stregato. Strappa la pagina, si tiene il mal di denti ed inizia a sognare. Sogna un’impresa impossibile sulla cima delle Twin Towers, che diventeranno la costruzione più alta del mondo ma a quel punto sono ancora un progetto su carta. Ma Petit è un sognatore come pochi. Ostinato, caparbio, ambizioso. E folle.

Aveva da poco iniziato a praticare il funambolismo. Ancora bambino era diventato mago e giocoliere autodidatta. Applicandosi in seguito a pittura, scultura, scherma, stampa, falegnameria, teatro, equitazione. Tauromachia. Espulso da cinque scuole prima della maggiore età. Avrebbe potuto diventare un circense modello, ma perfino il circo gli andava stretto. Diventò quindi artista di strada, ovviamente sui generis. Silenzioso, misterico. La giocoleria come introspezione e indagine del sé.
Le Torri, Petit ed il suo sogno crescono insieme. C’è una sequenza bellissima all’inizio del film, che si apre con una ripresa del cantiere delle Twin Towers, affiancata pochi secondi dopo da alcune foto dell’infanzia di Petit, che si atteggia a marinaio, esploratore, spadaccino, e finalmente a scalatore e prestigiatore.
E lui stesso dirà di quegli anni, retrospettivamente: “Usually when you have a dream, the object of your dream is tangible, is there, it’s quixotic but it’s there, nagging you, you know, confronting you. But the object of my dream doesn’t exist yet.” Petit trova degli aiutanti (dei complici) ed appronta preparazione, esercizi, sopralluoghi.

Il film è basato sul suo libro To Reach the Clouds (2002) e, stando a wiki, è costruito come un heist / caper movie. La tensione narrativa è data dalla costruzione ad incastro: gli eventi del 7 agosto 1974, ricostruiti nel dettaglio ed assolutamente avvincenti, sono inframmezzati agli episodi salienti che negli anni hanno portato a quel giorno. Lo spessore narrativo invece è fornito dalla polifonia di voci: tutte le persone coinvolte sono state intervistate per il film; e comparare convinzione, coinvolgimento e contributi di ciascuno di loro ci restituisce la dimensione della pazzia di Petit.
Ipse dixit: “And slowly I thought: Ok, now… it’s impossible, that’s sure. So let’s start working.” Non è adorabile?

La sinossi del film è reperibile in inglese sul sito ufficiale e in italiano qui per gentile lavoro amanuense del sottoscritto.

Dice James Marsh, il regista: “Decisi di fare un film che fosse il resoconto veritiero di questa mitica quête. Dramma esistenziale, commedia degli errori, storia d’amore e racconto sull’amicizia e i suoi limiti, oltre che una satira sull’autorità e le sue regole arbitrarie: il film sarebbe diventato tutto questo e altro ancora”. Petit ha accettato la proposta, fornendo a Marsh un repertorio sterminato ed insostituibile di immagini e filmati originali. Fa un certo effetto vedere i protagonisti, oggi di mezza età, e rivederli poi ringiovaniti di trent’anni nei super8 in b/n dell’epoca.
In una di queste sequenze viene inquadrato uno schermo TV, che mostra Nixon dichiarare la propria innocenza nel corso del Watergate. È una sequenza breve ma significativa. Per contro, nessun accenno viene fatto a quello che sarebbe accaduto 27 anni dopo: a suo modo questo è -anche- il racconto newyorkese di come le Twin Towers sono nate, e non di come sono state distrutte.
“Molti newyorkesi conoscono Philippe,” afferma Marsh. “È parte essenziale del folklore della città, tanto più adesso che le Torri non ci sono più. Ma seppi subito che il destino delle Torri non aveva niente a che fare con il nostro film. L’avventura di Philippe doveva stagliarsi solitaria, come una favola, tanto più meravigliosa perché veramente avvenuta, ambientata in un periodo storico solitamente ricordato come corrotto e squallido.”

Romanzieri & compositori. New York & Paris.
Ho fatto la posta a questo film per mesi. Richiesi l’acquisto alla mia biblioteca, e prima di poterlo prendere a prestito attesi i tempi tecnici (anche Blockbuster vuole, o meglio voleva, la sua parte). A catturare la mia attenzione, credo, fu il nome di Paul Auster sulla copertina, citato tra i collaboratori del libro allegato. Ho scoperto poi che il testo di Auster era già apparso in The Art of Hunger, ed è quindi probabile che l’avessi già letto. Questo spiegherebbe tra l’altro perché il nome e le imprese di Petit non mi erano nuovi. Ho anche scoperto che Auster fece la conoscenza di Petit, in modo assolutamente casuale, durante il suo soggiorno francese nei primi anni ’70, quando Petit faceva il giocoliere per le strade di Parigi. Secondo i miei calcoli (ne ho parlato anche nella mia tesi) quello fu anche il periodo in cui Auster entrò in contatto con Sophie Calle. Ma quella è un’altra storia.
Per una curiosa coincidenza, che forse non è affatto una coincidenza, nell’estate newyorkese del 1974 si svolge anche la quarta parte di Underworld di DeLillo. Anche in quel caso c’è il Watergate sullo sfondo, oltre naturalmente alla sagoma delle Twin Towers in costruzione. Ed anche in quel caso il punto di vista sulla città è spesso sopraelevato: la protagonista si ritrova invitata ad una serie di party sul tetto di questo o quel palazzo di Manhattan, nel corso di quella che lei definisce la sua rooftop summer; forse per evitare gli effetti collaterali del concomitante e nefasto sciopero degli spazzini, di cui invece risentono i piani bassi (e questo non è certo uno spoiler del romanzo, semmai un teaser!).
L’impresa di Petit costituisce inoltre il prologo di Let the Great World Spin di Colum McCann, “Those Who Saw Him Hushed”.

La colonna sonora del film è di Michael Nyman, ma include anche altre composizioni, tra cui, crucialmente, la Gymnopédie n. 1 e la Gnossienne n. 1 di Satie.

James Marsh
Man on Wire (2009)
libro + dvd
pp. 72, €14,9
Feltrinelli, 2009

Giudizio: 4/5.