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Jørn Riel, Una storia marittima

I libri possono avere molte malattie. Stanno nascoste tra le righe e si vedono solo con la lente d’ingrandimento. Possono essere pericolosi per la salute, questi libri, molto pericolosi. Ne prendi in mano uno e cominci a leggere, e il giorno dopo hai già il mal di testa e il delirio o peggio ancora” (dal racconto “Una deviazione”).

La mia prima lettura danese (se escludiamo Kierkegaard e forse Andersen quand’ero bambino) mi porta ben lontano dalla Scandinavia e fino in Groenlandia, la dépendance più grande al mondo. E la più desolata, con ogni probabilità. Mi porta oltretutto sulla costa nordorientale dell’isola, “da sempre la più isolata e disabitata di una terra isolata e disabitata” come nota Maria Valeria D’Avino nella postfazione, ricordando che Riel la conosce bene perché “rimase in Artide per più di sedici anni”. Un’area dove “non c’è una sola gonnella al di sopra del 71° grado di latitudine nord”, come scoprirà a sue spese uno dei personaggi, e i cui unici abitanti sono i cacciatori che occupano a coppie le stazioni di caccia della costa. Sono loro i protagonisti dei racconti di Riel, un cast assolutamente sui generis a cui lo scrittore ha dedicato negli anni decine di raccolte, che costituiscono una sorta di saga a puntate (Iperborea ne ha finora pubblicate cinque, di cui questa è la terza). Il che significa per inciso che il titolo del volume, che deve aver adescato più di un lettore ed io buon ultimo, è piuttosto ingannevole: non aspettatevi i pescatori di Jón Kalman Stefánsson o le storie marittime di Thorkild Hansen; nel racconto che dà il titolo alla raccolta, vediamo una contessa svedese conquistare il cuore di Olsen, capitano norvegese della Veslemari, la nave che con il suo punto esclamativo di fumo maleodorante fa la spola ogni primavera tra Copenhagen e Capo Thompson.

I racconti sono ambientati nell’era del diesel, la prima metà del 20° secolo: l’era dei pionieri artici, che volgeva alla fine quando il diciottenne Riel giunse in Groenlandia nel 1950 (scippo di nuovo la postfazione). Un’era quasi eroica — sebbene uno dei personaggi, lo “studente, esperto cacciatore e poeta” Anton giunga alla seguente riflessione, mentre torna tranquillamente a casa camminando sul ghiaccio marino dopo essere letteralmente saltato giù dalla Veslemari che avrebbe dovuto portarlo in Danimarca:

Gli tornarono in mente le visioni della sua giovinezza sugli eroi polari, e rise a gola spiegata di quelle sciocche illusioni. Che cosa sarebbe un eroe? Che assurdità parlare di eroi polari! O si amava la vita quassù, e quindi si accettavano le condizioni del Paese, o non la si amava, e tanto valeva tornarsene a casa con Olsen. Di eroi non ce n’erano, né al polo né ai tropici, figuriamoci poi a Rødovre” (dal racconto “Una deviazione”).

I personaggi di Riel appaiono fuori dal mondo proprio perché forgiati da quel mondo: abituati al freddo estremo che gela le barbe e alle tempeste di neve che durano tre giorni. Abituati soprattutto all’isolamento e alla solitudine, che affrontano con una scorta infinita di chiacchiere e d’alcool (le cui dosi si misurano nell’arco della raccolta in dozzine e forse centinaia di barili). Per scongiurare la vertigine artica che rischia di farli impazzire, danno fondo al comune repertorio di aneddoti groenlandesi, di anno in anno più folto. E non sono cupe come la notte artica le loro storie, bensì piene di humour, spiattellato con impassibilità perfetta e tempismo impeccabile. Storie da cui spesso spuntano altre storie, con consumata arte affabulatoria; come la vicenda di Larsen della macelleria di Ringsted, risorto dalla tomba in cui era caduto ubriaco di alcool puro, che Valfred racconta per rincuorare gli amici circa la scomparsa di Anton (nel racconto di cui sopra).
Ma dietro le situazioni buffe, spassose e surreali che imbastisce, è chiaro il messaggio indiretto di Riel (che nella Premessa si scagiona: quanti abbiano vissuto nel Nordest della Groenlandia “potranno confermare che quanto ho riportato in queste pagine è veritiero e corretto, anche se forse con una pudica tendenza all’attenuazione”): lo humour e la leggerezza non sono che un modo di affrontare le condizioni di vita estreme, un modo alternativo all’introspezione e alla spiritualità austera che troviamo nelle pagine di altri autori scandinavi.

I racconti di Riel sono, nelle parole di un’amica che ne ha letti un paio, “sfiziosi”: leggeri, spassosi, non di rado esilaranti, e soprattutto, come dicevo, capaci di mostrare momenti di verità quasi per caso, senza fatica. Vi ritornano i medesimi personaggi strampalati e irresistibili, scambiandosi di volta in volta i ruoli di protagonisti e comprimari. Certo, non aspettatevi i piccoli capolavori a cui Iperborea ci ha abituati; ma non è difficile immaginare di affezionarsi a questo cast di personaggi, e non è difficile immaginare perché in patria Riel sia un caso letterario. Per non parlare del fatto che la vita di Riel è molto più avventurosa e inverosimile dei suoi libri.

Non sembrano male in fondo questi danesi; anche se al posto della ö usano la ø, lettera che sembra una manopola del gas lasciata al minimo. Avanti il prossimo…

Jørn Riel
Una storia marittima (1986)
traduzione e postfazione di Maria Valeria D’Avino
pp. 160, €9,5
Iperborea, 2004

Giudizio: 3/5.