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Tim Severin, La vendetta del vichingo (Viking #2)

Tim Severin è uno che si diverte. Era ancora un under graduate ad Oxford quando nel 1961 intraprese il primo dei suoi viaggi, che solo anni dopo sarebbero diventati resoconti—o travelogues, per usare un termine di moda. A quel primo exploit, appropriatamente sulle orme di Marco Polo, ne seguirono molti altri, sempre sulla scorta di un’autorità letteraria storica, o non di rado narrativa: Giasone degli Argonauti, Sindbad delle Mille e una notte, Ulisse, Genghis Khan, e avanti di questo passo. Tra 1976 e 1977, Severin si costruì un’imbarcazione secondo le tecniche in uso all’epoca di San Brendano (VI sec.), per dimostrare che la Navigatio Sancti Brendani Abbatis narra di un viaggio nientemeno che al Nuovo Mondo. E riuscì a replicare la presunta traversata dell’oceano, con tanto di soste alle Ebridi e in Islanda. L’ultima sua impresa, nel 1999, seguì il tragitto del Pequod.
A quel punto, a sessant’anni compiuti, Severin deve aver pensato di averne combinate a sufficienza. I suoi travelogues si vendono a secchiate, e gli hanno guadagnato anche riconoscimenti ufficiali. Ma il nostro Tim non sa starsene quieto, e ha iniziato a comporre cicli di narrativa storica. Ovviamente, non avendo più l’impegno dei suoi viaggi, gli rimane più tempo per la scrittura; tanto che l’intera trilogia di cui questo volume è il secondo capitolo è stata pubblicata in un singolo anno, il 2005.

Non sottilizziamo sul fatto d’iniziare la lettura di una trilogia a partire dal capitolo di mezzo: ho avuto gentilmente il volume in prestito da un’aNobiana mia concittadina, che a sua volta l’ha acquistato a meno di €3 (l’immagine del secchio, poco sopra, non era casuale).

Protagonista della saga Viking è Thorgils Leifsson: nato alle soglie dell’anno Mille in Groenlandia, nei possedimenti terrieri del padre, cresciuto in Irlanda, Islanda, Scozia e se non ricordo male anche Norvegia. Ah, e ovviamente Vinland; che vichingo sarebbe, altrimenti. Non so quanti di questi dettagli facciano parte del primo volume della saga, e quanti costituiscano semplicemente il background del personaggio. Nell’uno o nell’altro caso, il primo difetto della saga è evidente: Thorgils soffre di un involontario Wanderlust pari solamente a quello del suo creatore, e nel corso dei suoi vagabondaggi riesce ad essere presente praticamente a tutti gli eventi chiave del periodo, sopra il Mare del Nord e non solo. All’inizio di questo secondo volume lo troviamo, appena diciannovenne, a letto con Aelfgifu, regina e moglie nientemeno che di Canuto il Grande, re vichingo d’Inghilterra (e a chi stesse pensando che il nome Aelfgifu sia il dettaglio più inverosimile dell’intera questione, faccio notare che questi sono personaggi storici), alla cui corte Thorgils è arrivato accompagnando il suo maestro, un aedo islandese. Ed ecco il secondo difetto: fin dal primo capitolo, Severin strizza tutti gli occhi strizzabili agli appassionati di storia nordica, in modo fin troppo smaccato.

Al contempo, è chiaro che dietro la narrazione c’è una vasta ricerca storica, spero accurata, e che l’autore non perde occasione di usare il suo personaggio per svelarci man mano nuovi dettagli della vita in quel periodo e a quelle latitudini. Scopriamo così delle rivalità politiche tra vichinghi pagani e sassoni cristiani; delle norme che regolano il conio regale; dei vichinghi di Jom; e avanti spoilerando.

Certo, Thorgils gode di un tasso di paraculaggine strepitoso: dopo aver guarda caso ricevuto l’invito ad unirsi al seguito di Aelfgifu nella visita regale di costei a Northampton, viene sbrigativamente assegnato come aiutante all’addestratore dei cani da caccia, che però guarda caso è anche falconiere privato della regina, il cui migliore uccello appartiene ad una specie che vive guarda caso solamente in Groenlandia, &c.
L’apice del parossismo si raggiunge forse con l’entrata in scena di Grettir il Forte, figura (forse) storica cui è perfino dedicata una saga islandese, la Grettis saga Ásmundarsonar. Per la cronaca, il titolo originale del volume, Sworn Brother, ovvero “fratello di sangue”, fa riferimento appunto al legame tra Grettir e Thorgils; e anche il cinematografico titolo italiano si ricollega alle vicende di Grettir. Senonché nelle pagine di Severin Grettir è perseguitato da una sfiga di proporzioni quasi cartoonesche: dovunque vada ci scappa il morto, possibilmente più d’uno, e a causa della sua pessima fama Grettir viene sistematicamente incolpato. Una sorta di Will E. Coyote a rovescio.

Severin usa in fin dei conti la stessa tecnica narrativa impiegata dai Wu Ming per il loro Q: inserire un personaggio fittizio come un foglio di carta nelle crepe della storia. Il problema è che Thorgils Leifsson è il peggior prezzemolino dell’anno Mille: in pochi anni gira buona parte dell’Europa del Nord (e non solo, con un periodo in particolare di pendolarismo tra il continente e l’Islanda, che insomma non è propriamente dietro l’angolo), rimbalzato da un colpo di scena all’altro, scivolando tra le mansioni più disparate, scampando alle sventure che invece di volta in volta fanno piazza pulita dei suoi contatti; e chi tra loro rimane in vita ricompare con un tempismo sospetto.

Questo si rivela però, tipicamente, anche il maggior pregio dell’opera: che è avvincente, avventurosa, condotta sapientemente con un ritmo che cattura il lettore. Tra i romanzi d’intrattenimento questo meriterebbe forse più del giudizio (solamente) buono che gli ho dato io; ma di solito io non leggo romanzi d’intrattenimento, e devo quindi misurarlo con il metro che uso per Melville e Omero.

Ah, lo scorso agosto è uscito Saxon: The Book of Dreams, primo capitolo di una trilogia ambientata ai tempi di Carlo Magno, annunciata come follow-up (meglio sarebbe dire prequel) di Viking. Per i medievalisti sarà imperdibile.

Tim Severin
La vendetta del vichingo
(2005)
traduzione di G. Lonza
pp. 413, €6,5
Piemme, 2007

Giudizio: 2/5.