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William Burroughs, La febbre del ragno rosso

Nel suo Critica della democrazia occidentale, l’antropologo anarchico David Graeber ricorda che le comunità dei pirati atlantici nel XVIII secolo furono per certi versi una formulazione precoce di quelle che oggi ci piace definire, a volte solo formalmente, come democrazie occidentali: “Era lo spazio perfetto per un esperimento interculturale. Di fatto, non c’era a quel tempo in tutto l’Atlantico un terreno più adatto per impiantare nuove istituzioni democratiche” (elèuthera 2012, p. 81). Non sorprende quindi che un libertario autorevole e consapevole come William Burroughs si sia ispirato alla vicenda, peraltro storica e accuratamente ricostruita nella nota biografica conclusiva, del “pirata filosofo” Mission, fondatore in Madagascar della libera colonia di Libertatia. Burroughs preferisce l’Oceano Indiano all’Atlantico, il Madagascar ai Caraibi. Ci sono brani bellissimi sulla “grande isola rossa”:

Quando era attaccato al continente africano, il Madagascar sporgeva come un tumore disordinato, percorso da una spaccatura, il contorno dell’isola futura, […] simile a una grande incisione, alla fessura che divide il corpo umano. La spaccatura era larga un miglio in alcuni punti, in altri si restringeva a un centinaio di metri. Era una zona di cambiamento e di contrasto esplosivo, percorsa da violente tempeste elettriche, incredibilmente fertile in alcuni punti, completamente sterile in altri.

L’esperimento di Libertatia “minacciava di dimostrare che era possibile per trecento anime coesistere in relativa armonia tra di loro, con i vicini e con l’ecosfera di flora e fauna”. Tra gli Articoli stabiliti da Mission, uno vieta l’uccisione dei lemuri, pena l’espulsione dalla colonia. E, fatalmente, il romanzo si apre con la morte violenta di un lemure, che è anche un atto d’insurrezione politica.
Ma invece di curarsi della minaccia più o meno imminente, o forse proprio per comprenderla a fondo, Mission decide di cercare una droga. Il suo ragionamento è impeccabile e perfettamente burroughsiano: in un’isola piena di specie endemiche, deve esistere una droga tipica del luogo. Scopre che esiste e che si chiama indri, ovvero “guarda bene”. Mission la prende ed inizia a vedere. Capisce che il tempio di pietra abbandonato nel cuore della foresta, verso il quale prova una profonda fascinazione, è in verità “l’entrata al biologico Giardino delle Occasioni Perdute”.
In The Cat Inside (ovvero Il gatto in noi, pubblicato sempre da Adelphi) Burroughs descrive il gatto, creatura delicata, misteriosa e magica, come suo compagno psichico, di cui si considera Guardiano: creatore e custode di un’ibridazione tra umano, animale e un che di «ancora inimmaginabile». E dal punto di vista letterario il passo è breve dai gatti ai lemuri, che figurativamente sembrano l’anello di congiunzione tra i primati, uomo incluso, e altri animali più ferini e primitivi. Mission ne tiene in casa uno, che chiama Fantasma. E già nella prima pagina del libro Burroughs si premura di spiegare che nella lingua locale è il termine stesso lemure a significare “fantasma”. Ed è forse il caso di ricordare a questo punto che il titolo originale è Ghost of Chance, che nella sua indeterminatezza potrebbe significare “spettro della sorte” ma anche “(l’) ombra di (un’) opportunità” (la febbre del ragno rosso nel libro c’è ma è secondaria, e credo sia stata scelta principalmente perché ad Adelphi torna comodo avere un colore nel titolo).

Il libro è un’elegia alle occasioni perdute; non solo biologiche ma anche politiche, verrebbe da dire. Perché, come mostra la prosa onirica di Burroughs, le due questioni sono connesse. Staccandosi dal continente, centosessanta milioni di anni fa, il Madagascar ha creato delle condizioni uniche, un ambiente privo di predatori e adatto al Popolo dei Lemuri, il cui “modo di pensare è fondamentalmente diverso dal nostro, non orientato verso il tempo, la sequenza e la causalità”.

Hanno il pollice opponibile ma non fabbricano strumenti; non hanno bisogno di strumenti. Sono indenni dal male che riempie l’Homo Sapiens quando afferra un’arma—ora è lui ad avere il sopravvento. Una terribile sensazione di trionfo viene dalla consapevolezza di essere il più forte. La bellezza è sempre destinata alla sconfitta”.

Ed ecco la metafora, la sintesi poetica:

C’è una spaccatura dentro l’organismo umano, la spaccatura o fessura tra i due emisferi, quindi ogni tentativo di sintesi resta irrealizzabile in termini umani. Faccio un parallelo tra questa fessura che divide le due parti del corpo umano e la spaccatura che ha separato il Madagascar dal continente africano. Una parte è scivolata dentro un’incantata innocenza senza tempo. L’altra si è avviata inesorabilmente verso il linguaggio, il tempo, l’uso di strumenti, la guerra, lo sfruttamento e la schiavitù”.

La prosa di Burroughs è costellata di simili illuminazioni. A volte apparentemente sconnesse, e in realtà portatrici di una verità più profonda. E d’altro canto non c’è, semplicemente, un altro scrittore che sappia illustrare con altrettanta efficacia gli effetti delle droghe: lo spostamento di prospettiva (“come se i suoi occhi si muovessero su cardini diversi”) e il turbine di immagini dotate di una propria logica. Probabilmente non c’è, semplicemente, un altro scrittore che abbia sperimentato con altrettanta metodicità tutte le droghe mai create. E sia sopravvissuto per scriverne.
La narrazione a volte sembra prendere direzioni del tutto inattese, come nelle pagine bellissime, esilaranti e profondamente vere sull’ipocrisia di Gesù; il punto, come credo di aver dimostrato, è che questo libro va citato più che recensito, perché le mie parole non saranno mai efficaci quanto le immagini evocate dall’autore. E anche solo quella dei lemuri, creature delicate, dolci e indifese, destinate alla sconfitta, varrebbe il costo del biglietto — del trip.

Non era sicuro di voler vedere quello che gli avrebbe mostrato l’indri; sapeva già che sarebbe stato insopportabilmente triste”.

Prenderete anche voi l’indri?

William Burroughs
La febbre del ragno rosso (1991)
traduzione di Marisa Caramella
pp. 71, €8
Einaudi, 1996

Giudizio: 4/5.