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Tahar Ben Jelloun, Fuoco

Pubblicato il 31 agosto 2012 su Cabaret Bisanzio.

Nell’epoca degli Hunger Games della finanza transnazionale, in cui intere economie offrono docilmente in pegno l’erosione dei diritti e delle libertà dei propri cittadini, è stata e continua ad essere una sorpresa per molti che le più imponenti manifestazioni popolari degli ultimi anni abbiano avuto luogo in paesi arabi tradizionalmente retti da regimi autoritari, piuttosto che nelle democrazie occidentali: Tunisia, Egitto, Libia, recentemente la Siria.
La verità è che la protesta popolare covava da tempo sotto la cenere in quei paesi, ed è bastata una scintilla per incendiarla. Tahar Ben Jelloun, scrittore marocchino residente a Parigi, fornisce un resoconto di quella scintilla iniziale in questo testo agile, pubblicato da Gallimard nel primo anniversario della primavera araba. Il fuoco del titolo è quello della foto di copertina: “Mohamed Bouazizi si dà fuoco nella piazza di Sidi Bouzid, 17 dicembre 2010”.

Il gesto di estrema, disperata protesta personale che avrebbe innescato gli eventi della primavera araba, cambiando la Storia, fu la fine dell’inizio. Jelloun evita ogni retorica, e piuttosto che dilungarsi su fatti universalmente noti preferisce raccontare quello che li ha preceduti: gli ultimi giorni di vita del tunisino Bouazizi, le cause dell’irrimediabile epilogo.

 Alla morte del padre, Mohamed si ritrova in quanto primogenito a dover provvedere alla famiglia: cinque tra fratelli e sorelle minori, oltre alla madre diabetica. È laureato in storia ma non ha mai ottenuto un impiego, nonostante le numerose proteste davanti al ministero dell’economia. Il giorno stesso del funerale, brucia il suo diploma. Deluso, scoraggiato, è costretto a riprendere il carretto della frutta che era stato del padre. Gli studi, i sacrifici, le speranze di ascesa sociale sono stati inutili: la povertà è una condanna, e la vita di Mohamed diventa una serie di rinunce ed espedienti quotidiani.
E questi non sono nemmeno i suoi problemi peggiori. Ben più gravi sono le continue vessazioni che il giovane è costretto a subire da parte della polizia. Viene tormentato dagli agenti perché si rifiuta (oltre a non potersi permettere) di corromperli, e fa orecchie da mercante al velato suggerimento di diventare informatore. È quindi costretto a “fare il mercante ambulante, dato che tutte le buone posizioni erano occupate da coloro che collaboravano con la polizia”. Gli abusi si ripetono, tra insulti e continue intimazioni a spostarsi altrove; fino ad una confisca del carretto, totalmente arbitraria. A quel punto, le proteste di Mohamed al commissariato e le richieste di esser ricevuto dal sindaco sono inutili. Si convince quindi di avere una sola opzione: “Se avessi un’arma, la scaricherei tutta su questi stronzi. Non ho armi, ma ho ancora il mio corpo, la mia vita, la mia fottuta vita… è questa la mia arma…

Raccontando di Bouazizi, Jelloun ritrae con una prosa asciutta e senza sbavature la vita dei tunisini sotto il regime di Ben Ali: soprusi e prepotenze di politici e polizia da una parte, e dall’altra l’estrema povertà, ma anche la solidarietà della gente comune. La polizia in borghese è ovunque, lo spionaggio capillare: non appena Mohamed interrompe i contatti con il gruppo dei laureati disoccupati (probabilmente infiltrato o comunque controllato), riceve una visita dalle forze dell’ordine; subito dopo aver incontrato di nuovo uno dei vecchi compagni di lotta, viene interrogato e picchiato. “Ti conviene darti una calmata perché in questo paese, quando la polizia ferma qualcuno, non si sa in quali condizioni lo rilascia”, gli consiglia un vicino di casa. Spesso Jelloun lascia parlare i fatti: “A casa, la vecchia televisione era accesa. Una trasmissione stava celebrando i trent’anni di regno del Presidente della Repubblica”. A tratti la ricostruzione ricorre ad un simbolismo poetico di grande efficacia: nel corso di una retata contro un gruppo di giovani venditori ambulanti, un dvd di Spartacusfinisce spiaccicato sotto le ruote del furgoncino”.

E celebrando Bouazizi, uno studente di storia che ha fatto la Storia solo dopo aver bruciato il proprio diploma, Jelloun ci ricorda che che c’è ben altro che dovremmo importare dal continente africano piuttosto che gli anticicloni e il petrolio libico.

Tahar Ben Jelloun
Fuoco
(2011)
traduzione di Anna Maria Lorusso
pp. 80, €8
Bompiani, 2012

Giudizio: 4/5.