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Dino Buzzati, Poema a fumetti

O morte, o morte, dono sapiente del dio”.

Hugo Pratt, Una ballata del mare salato (1967)
Dino Buzzati, Poema a fumetti (1969)

Una cosa è certa: la graphic novel è un’invenzione italiana.
Quest’opera, in particolare, ha tutte le carte in regola per rientrare nella categoria: concept, unità della visione, maturità. Buzzati, che ha 63 anni quando pubblica il Poema, si era già cimentato con la narrativa illustrata: ad esempio in La famosa invasione degli orsi in Sicilia, che però è un libro per ragazzi illustrato. Poema a fumetti è invece un’opera pienamente adulta, di grande profondità, dotata di molti livelli di lettura.

Come notò Carlo della Corte nel Gazzettino del 16 novembre 1969, e come del resto lo stesso Buzzati specifica nei ringraziamenti, le sue tavole sono intessute di riferimenti colti, da Salvador Dalí a Caspar David Friedrich fino a Fellini e a molti altri che io non so cogliere. E ai riferimenti visuali si aggiungono quelli letterari, dato che l’opera è una rivisitazione del mito di Orfeo ed Euridice: Orfi, ultimo rampollo di una nobile famiglia milanese, è un cantautore idolatrato dai giovani, ed Eura è la sua ragazza. Più che moderna si tratta in effetti di una rilettura personale: nel corso del suo viaggio nell’oltretomba, il protagonista scopre che i morti conducono un’esistenza per molti versi simile a quella dei vivi. Il loro rimpianto non è dunque rivolto verso ciò che ancora hanno, ma verso quanto di più prezioso hanno perso, “la cara infelicità”: “oh la perduta angoscia, gli incubi, l’angustia, i dolori sociali perduti”.
Ciò che è loro negato ora e per sempre è “la libertà di morire”.

Un inferno borghese?
La domanda mi sorge spontanea scoprendo che i defunti “camminano, parlano, fumano, ridono. Vivono, quasi”; che l’oltretomba è un luogo di “ottusità indistruttibile, uniformità, prevedibilità, noia” dove “nessuno ha fame, nessuno ha bisogno, tutti uguali, parlano uguale, mangiano uguale, si divertono uguale. Sono felici! Sbadigliano”. E che dire del fatto che “il nuovo capo è tipo elettronico robot manageriale dirigenziale executive” (e questo per bocca di un diavolo custode che poco prima si è definito “piuttosto corrotto e krusceviano”).
Viene da chiedersi quanto abbia influenzato sulla concezione dell’opera la formazione dell’autore, nato da famiglia alto-borghese nel bellunese e trasferitosi a Milano ancora in età scolare.

Nel mito di riferimento è già implicito il tema di eros e thanatos, che ritorna costantemente in queste pagine. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensano le lettrici, come interpretano il punto di vista prettamente maschile di un’opera i cui autore e protagonista sono entrambi uomini e in cui le donne sono tentatrici fin da principio, fin dalla canzone con cui ci viene presentato il songwriting di Orfi – e che non a caso s’intitola Le streghe della città.
I sospetti di oscenità dei disegni, confutati già all’epoca anche da Indro Montanelli, oggi farebbero sorridere; al limite potrebbe far storcere il naso l’uso del termine ‘negretta’ riferito ad una piacente ragazza di colore.

Il tratto è compiutamente maturo, personale. Uno stile poetico e onirico, le cui atmosfere al contempo urbane e rarefatte, raffinate, mi hanno ricordato Guido Crepax; sarà il comune humus della borghesia milanese. E assolutamente personale, prosaico, struggente, è il modo (che non svelo) in cui Buzzati affronta il finale.
In fin dei conti l’unico limite all’uso dell’etichetta ‘graphic novel’ per questo libro sta proprio nel fatto che non si tratta di un romanzo ma appunto di un poema. La graphic novel è un genere ormai affermato in tutto il mondo; dovremmo ricordarci più spesso che tra i suoi geniali pionieri c’era un bellunese.

Dino Buzzati
Poema a fumetti (1969)
p. 288, €11
Mondadori, 2000

Giudizio: 5/5.