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Francesco Cataluccio, Vado a vedere se di là è meglio

Polacchi di tutto il mondo, disperdetevi.

Esattamente come Safran Foer in Eating Animals, tradotto in italiano con Se niente importa, anche Cataluccio apre il suo libro più autobiografico riconoscendo nella nonna, ebrea e reduce dalla Shoah, il perno etico e morale della famiglia, la portatrice dei valori a cui l’autore si richiama. Negli anni formativi a Firenze fu Rachele, la nonna del suo migliore amico d’infanzia, a raccontare ai due bambini dei “trentasei Giusti che vivono nell’oscurità e con le loro virtù salvano il mondo dall’annientamento. Proprio così: «dall’annientamento». Che in ebraico si dice Shoah, e in polacco Zagłada”.
Ed è in un certo senso alla ricerca dei Giusti, dice Cataluccio, che alla morte della nonna Giulia “iniziai ad andare a zonzo, senza un fine preciso, e ancor oggi non riesco a fermarmi. Ogni tanto prendo armi e bagagli e vado via. Solo molto tempo dopo capisco dove sono stato”.
Anni dopo, frequenta all’università i corsi di Filosofia ma decide “di studiare una lingua «nemica»: il polacco. […] Al primo anno eravamo quattro gatti, ma non ho mai dubitato che quella eccentrica scelta sia stata una delle migliori intuizioni della mia vita!”. Tra le ragioni di questa convinzione c’è la tradizione secolare che vede nelle Polonia, nonostante gli episodi di antisemitismo, “una sorta di «Paradisus Judaeorum»”; oltre ad un’affermazione che il prosieguo del libro sembra confermare: “ovunque uno vada per il mondo, trova sempre qualcuno che parla polacco”!

 Nelle prime dieci pagine sono quindi racchiuse le chiavi di lettura di questo folto e denso volume. I ventidue capitoli, dedicati ciascuno ad una diversa città (le prime due sono ovviamente Firenze e Varsavia), raccontano i vagabondaggi dell’autore e i suoi dotti incontri. E se la dimensione autobiografica dovrebbe contribuire a coinvolgere il lettore, lo sfoggio che Cataluccio fa della propria cultura e il suo citazionismo compulsivo raggiungono rapidamente una statura auto-parodistica. Inoltre i suoi viaggi danno spazio non di rado a voli pindarici, pretesti per il name dropping. Non mancano ovviamente molti episodi interessanti, e per gli amanti del mondo ashkenazita, della cultura mitteleuropea e slava, il testo è una miniera; ma l’effetto generale è di un eccessivo sovraffollamento.
Quando poi esce dal proprio ambito di studi per entrare nel mio, ad esempio nel capitolo su Buenos Aires, Cataluccio diventa approssimativo, tratta la storia della città e i suoi abitanti con sufficienza, sbaglia gli accenti (lui che è così pignolo con i vari Łódź e gli altri impronunciabili nomi polacchi). Il periodo di residenza a New York è per lui “come essere in Polonia. […] Per due settimane non parlai quasi mai l’inglese”.
Cataluccio vagabonda per buona parte dell’Europa orientale, con qualche capatina ad ovest e perfino nel Nuovo Mondo, ma ovunque vada cerca sempre la stessa cosa: polacchi ed ebrei. Possibilmente ebrei polacchi. C’è da chiedersi perché non sia stato a Chicago, la terza città polacca per numero d’abitanti (fonte la guida Lonely Planet: Nate Cavalieri, Chicago: incontri.  Torino: EDT, 2010).

 La persona che mi ha prestato il libro mi ha spiegato che è un breviario, e che come tale andrebbe letto. A mio avviso ci sono due possibilità: abbandonarsi al flusso di aneddoti oppure consultarlo a partire dal folto indice dei nomi.

 Francesco Cataluccio
Vado a vedere se di là e meglio: quasi un breviario mitteleuropeo

pp. 424, €15
Sellerio, 2010

Giudizio: 3/5.