Skip to content

Elizabeth Bishop, Il mare e la sua sponda

Edwin Boomer conduceva la vita più letteraria che si possa concepire”.

Conosco solo indirettamente la produzione poetica della Bishop (più di una delle mie compagne di università l’hanno letta) ma quando ho scovato questo libretto sugli scaffali della biblioteca mi è sembrato una perfetta lettura estiva.

Il mare e la sua sponda
Edwin Boomer, protagonista assolutamente solitario di questo racconto, ha l’incarico di ripulire una spiaggia dalle cartacce. Questa trama semplice, banale, viene trattata dalla Bishop in modo asciutto, quasi si trattasse di una favola, un racconto archetipo: “Un tempo, in una delle nostre spiagge…”
Spesso le immagini evocate sembrano uscire da una dimensione poetica, cioè quella propria dell’autrice; e non mancano le citazioni ad altri testi, espliciti o impliciti.
Di fatto Boomer, con il suo bastone, la lanterna, il sacco pieno di carte da bruciare e le tasche colme di foglietti da leggere, finisce per diventare una figura post-moderna ante-litteram: raccoglie gli scarti testuali altrui, li accumula alla rinfusa, li ricontestualizza, cerca nuovi significati possibili per loro e per sé.

In prigione
Torna l’afflato citazionista e il recupero di brandelli di altre opere: è una citazione di E.E. Cummings quella? E il riferimento alla carta da parati non è forse una strizzatina d’occhio a The Yellow Wallpaper di Charlotte Perkins Gilman? &c.
La storia è in prima persona, il che ovviamente implica tutte le considerazioni su un ‘unreliable narrator’. Cosa passa per la testa del nostro protagonista? (o meglio perché?) Cosa ha fatto per essere certo della propria carcerazione?

In chiusura, cedo alla tentazione di citare un brano:

Secondo le leggi di natura, una spiaggia dovrebbe essere capace di tenersi pulita da sola, come i gatti. […] Ma il ritmo della vita moderna è troppo veloce. Le nostre tipografie sfornano troppa carta stampata -la quale trova poi il modo di arrivare ai nostri mari e a riva- perché la natura possa arrangiarsi da sola”.

Elizabeth Bishop
Il mare e la sua sponda
traduzione di Monica Pavani
pp. 42, €5,5
Adelphi, 2006

Giudizio: 3/5.

Félix Fénéon, Romanzi in tre righe

Una riga per l’ambiente, una per la cronaca più o meno nera, una per l’epilogo a sorpresa”.

Ho scoperto l’esistenza dei romanzi in tre righe, e del loro autore, grazie ad una menzione di Matteo Codignola nel suo Un tentativo di balena. Quel libro parla dello spettacolo teatrale di 15 minuti che Roberto Abbiati ha tratto da Moby Dick (a sua volta una miniaturizzazione non da poco) e Codignola ne approfitta per fare una carellata delle narrazioni più brevi mai pubblicate. Ne parlo per esteso perché c’è più di un punto di contatto con il libriccino in questione. Non da ultimo il fatto che è curato dallo stesso Codignola. Che si conferma un narratore sempre acuto ed interessante. Come dicevo a proposito di Un tentativo di balena, se finissi per lavorare nell’editoria (e SE fossi bravo quanto lui) la mia prosa sarebbe probabilmente simile alla sua. Un estratto dalla sua postfazione:

Le “brevissime” non erano un’invenzione del Matin ― al contrario, apparivano su ogni quotidiano di quegli anni, indipendentemente dall’autorevolezza del medesimo. In un giornalismo in cui la distinzione tra fatti e fattoidi non era considerata dirimente, e il concetto di riscontro suonava come un’utopia futurista, si riteneva che quotidiani e periodici dovessero offrire ai lettori, insieme alle notizie, anche una robuta dose d’invenzione ― e che i lettori chiedessero d’essere informati, ma contestualmente anche intrattenuti, e stupiti. Non era un’idea della comunicazione poi molto diversa da quella che abbiamo sotto gli occhi, però questo è un altro discorso.

Qui Codignola si occupa di selezionare alcune tra le circa 1500 narrazioni che Fénéon redasse per la sua rubrica, anonima, sul quotidiano Matin, nella maggior parte dei casi nel 1906.

Félix Fénéon era un personaggio assolutamente sui generis tra gli artisti, peraltro certo non conformisti, della Parigi fin de siècle. Impiegato ‘impeccabile’ del Ministero della Guerra, critico d’arte tra i primi a sostenere gli impressionisti, coniatore del termine neo-impressionismo (qui il ritratto che gli fece Paul Signac), collaboratore di un giornale anarchico, poi direttore di un altro giornale anarchico, ed ancora direttore della Revue Blanche (dove il suo critico letterario era Gide e quello musicale Debussy, come ricorda Codignola) ed editore in proprio con le Éditions de la Sirène. Tanto preciso e millimetrico nella prosa quanto evasivo e sfuggente nella vita. Spesso firmava i suoi pezzi con uno pseudonimo; in altri casi non li firmava affatto.

Sulla terza dimensione
A volte la rete falsifica la percezione sulle dimensioni reali dei libri. Quelli della collana “Biblioteca minima Adelphi” sono molto piccoli, 16.5 x 10 cm, e contano in genere una cinquantina di pagine. In pratica non si tratta di un libro, ma di un segnalibro. Il segnalibro più intelligente, geniale e divertente che io abbia mai avuto per le mani.

Sulla quarta dimensione
Questi romanzi in tre righe entreranno discretamente a far parte delle vostre letture quotidiane per non uscirne più. Io li rileggo di continuo. Grazie a Fénéon è sempre il 1906. Oltretutto il libro è talmente piccolo da poter essere infilato in un altro libro.

Sul prezzo
50 pagine, di queste dimensioni oltretutto, a più di €1 sono un furto.
Io l’ho comprato al 20% di sconto, e solo perché il libro è una convergenza strabiliante di ossessioni più o meno recenti: Codignola, le narrazioni miniaturizzate, l’epoca vittoriana, la riflessione metanarrativa, il giornalismo ottocentesco, e ovviamente l’anarchismo. Ma voi pensateci prima di spendere.

p.s. Fénéon è finito anche su Fifty-Two Stories.

Félix Fénéon
Romanzi in tre righe
pp. 58, €5,5
a cura di Matteo Codignola
Adelphi, 2009

Giudizio: 5/5.

Matteo Codignola, Un tentativo di balena

Un libro delizioso, sorretto da una prosa originale & seducente. Ho l’impressione che se dovessi scrivere un libro sarebbe molto simile a questo, per spirito, tono, uso delle fonti. Ma questo non interessa a nessuno.

Il casus belli è Una tazza di mare in tempesta, lo spettacolo che Roberto Abbiati ha tratto da Moby Dick, quasi suo malgrado, come risultato dell’accumulo di piccoli manufatti ricavati da oggetti di seconda mano: quello che ne deriva è uno spettacolo di 15 minuti, da rappresentarsi dentro una (apposita, ci mancherebbe) scatola, per 15 spettatori alla volta. Una riduzione radicale del capodoglio melvilliano.

Ma prima di arrivare a parlare dello spettacolo Codignola, irresistibile divagatore, ci accompagna in un lungo excursus sulla narrativa in miniatura, sulle storie più brevi mai raccontate. Scordandosi (volontariamente?) di menzionare il peraltro celebre romanzo in sei parole di Hemingway: “For sale: baby shoes, never worn”.
E poi ancora tutte le produzioni artistiche ispirate a vario titolo a Moby Dick, dalle illustrazioni di Rockwell Kent al film (ovviamente abortito) di Orson Welles, le riduzioni, &c. Aggiungendo ogni volta le ulteriori divagazioni del caso.

Solo nella seconda parte del libro (aperta da una citazione di Tom Waits che mi ha definitivamente confermato di aver trovato uno spirito affine) Codignola ci porta a teatro, ovvero nella scatola, per raccontarci la messa in scena di Abbiati. Che per l’occasione illustra il tutto con disegni deliziosi. Lo spettacolo è analizzato scena per scena, con tanto di durata in minuti e secondi.

La delicatezza, la sapienza scenica e narrativa di Abbiati sono disarmanti; facile immaginare perché Codignola si sia fatto ammaliare dal suo spettacolo. E perché abbia deciso di tenergli testa.

Matteo Codignola
Un tentativo di balena
illustrazioni di Roberto Abbiati
pp. 151, €13
Adelphi, 2008

Giudizio: 4/5.

Gloria Bianchetti, Voci del mare: Melville, Conrad, Pratt

Dalla quarta di copertina:

Gloria Bianchetti si è laureata con una tesi sui rapporti tra fumetto e letteratura di viaggio. Suoi racconti hanno ottenuto riconoscimenti in concorsi per opere inedite e la pubblicazione nell’antologia” eccetera.

In altre parole, l’autrice ha velleità letterarie, e ha scritto una tesi sull’argomento di questo saggio. Pubblicare la propria tesi, o una sua rielaborazione, è un’aspirazione per molti, che pure sono coscienti di non aver scritto una nuova Nascita della tragedia; ma voglio sperare che la tesi di laurea della Bianchetti fosse più approfondita di questo libro.
L’impressione è quella di un saggio che aspira ad essere comprensivo, ma non approfondito. Operazioni come questa, che spaziano senza scavare, mi sembrano alla portata di tutti nell’epoca di wikipedia. Non certo una scelta accorta, quando ci si occupa di autori così importanti, così studiati e —mi si passi il gioco di parole— così profondi. Il difetto più grave è che non ci sono guizzi d’intelligenza, né interpretazioni innovative o anche solo interessanti; nulla che il lettore attento degli autori in questione non abbia già scoperto da sé.
Uno degli insegnamenti di Melville è quanto siano profondi gli abissi, fisici e metafisici. Ma qui si rimane in superficie.

Certo, come testo introduttivo, ad esempio per i liceali, potrebbe funzionare. Può vantare una prosa limpida e piana, che scorre senza increspature né traversate ardue; un apparato critico che aiuta ad orientarsi nella navigazione; e magari, per i più arditi, la tentazione di esplorare ulteriormente questi mari.
I riferimenti bibliografici sono accurati, anche se un po’ ovvii; inoltre la Bianchetti evidentemente è laureata in Lettere e non in Lingue, dato che si è limitata alla letteratura critica disponibile in lingua italiana. Il brano più divertente del libro è la menzione, in nota, di una tesi intitolata L’idea di avventura in Joseph Conrad e Hugo Pratt, con cui un tale Veronese (nomen omen) riuscì a laurearsi presso l’università di Verona, nientemeno che in Economia e Commercio! A quanto pare, a Verona le tesi su questo argomento sono all’ordine del giorno. E non solo a Lettere Moderne.

Ho avuto in prestito questo libro da un’amica veronese. Il che mi porta a due riflessioni a kilometri zero. La prima è che, considerando che pure l’editrice Ombre Corte è di Verona, il libro non deve aver fatto molta strada. La seconda è che non dev’essere un caso che proprio a Verona si tenga la fiera dei cavalli. Perché quello che sto facendo con questa recensione è guardare in bocca al cavallo donato.
Sarà che l’ho presa sul personale: ma con un titolo, e soprattutto con un sottotitolo come quello, le aspettative non potevano che essere alte. Forse troppo, per un saggio di queste dimensioni ridotte, che riescono perfino ad essere dispersive: il primo capitolo, che traccia una panoramica della letteratura di viaggio dai Naufragios ai Baedecker passando per il Grand Tour, per poi fare una panoramica sul tema del viaggio nei fumetti, poteva essere un’introduzione consona alla tesi della nostra autrice, ma mi pare sicuramente fuori luogo qui. Che c’azzecca con Melville e Conrad?

Gloria Bianchetti
Voci del mare: Melville, Conrad, Pratt
pp. 104, €8
Ombre Corte, 2006

Giudizio: 2/5.

Herman Melville, Tre scene da Moby Dick

Baby Dick.

Masterworks for dummies
Baricco piazza il suo nome sulla copertina dei capolavori altrui, dopo averli liofilizzati alle dimensioni di Seta.

Lo aveva già fatto con l’Iliade, e avendola passata liscia ci ha riprovato con Moby Dick. Se non altro in questo caso si tratta di brani scelti, che rispetto all’omogeneizzato omerico è già un’operazione filologicamente più corretta (una sorta di ‘best of’ letterario).
Ma c’è dell’altro: questo era in origine il testo di uno spettacolo teatrale. E se Melville recitato da Paolo Rossi, Stefano Benni e Clive Russell poteva avere un senso, qui siamo in presenza di un distillato di pretenziosità. Lo spettacolo era una collaborazione tra molte persone, com’è inevitabile a teatro; ma solo una di loro è finita sulla copertina del libro, guardacaso. Guardacaso queste cose Baricco le fa sempre con le opere di autori già morti & sepolti.

Io studio letteratura (nello specifico quella anglo-americana) e non sono disposto ad accettare queste manovre.

Un tentativo di balena
Non è la pratica del riadattamento a darmi fastidio.
Anni fa Roberto Abbiati trasse uno spettacolo teatrale proprio da Moby Dick (giusto per fare un esempio contestuale): uno spettacolo microscopico, di 15 minuti. Da quello spettacolo Matteo Codignola trasse spunto a sua volta per un libro, Un tentativo di balena, breve e delizioso, impreziosito dai delicati disegni di Abbiati. Codignola però ci aveva messo del suo, non solo intervistando l’attore/regista/scenografo/illustratore ma stilando una storia ragionata degli adattamenti di Moby Dick: dalle illustrazioni di Rockwell Kent al film (ovviamente abortito) di Orson Welles. E inserendo per buona misura una casistica delle narrazioni più brevi di tutti i tempi. In altre parole: un gioiellino, un testo unico, sui generis, che nessun appassionato melvilliano dovrebbe farsi sfuggire.
Anche in quel caso si tratta quindi di un libro tratto da uno spettacolo tratto da Moby Dick. Ma tra i due testi, è il caso di dirlo, c’è l’abisso. Perché Codignola ha sondato intere bibliografie su vari mezzi espressivi, mentre Baricco si limita a scremare tre episodi di un testo altrui. Per inciso la scelta di questi o altri brani è puramente arbitraria e mi interessa poco.

La traduzione
Qualcuno potrebbe obiettare che fornire il testo a fronte è una scelta intelligente, che permette di comparare le due versioni in un modo che il testo originale preclude, per ovvie ragioni di dimensioni. Senonché pure questa è una manovra da paraculo, perché il testo originale di Moby Dick è nel public domain ormai da decenni, ed è disponibile online in ogni formato; alcuni già annotati, come l’ottimo Power Moby Dick.
Mentre chi volesse comprare l’edizione economica Penguin Classics, cioè esattamente quella usata come testo di base in questo caso, spenderebbe £2. E la traduzione di Pavese è disponibile anche nell’ultima biblioteca paesana.
Nella traduzione Baricco se la cavicchia (ci mancherebbe che mandasse pure in vacca il testo!); tranne quando se ne esce con il termine optionals nel descrivere il Pequod, termine che nel testo originale non c’è, e per ovvii motivi. Se non altro si è inventato una buona soluzione per lo sketch intraducibile del thou/thee di Bildad.

La copertina
Alla fine la cosa migliore del volume sono i bei dipinti di copertina, prima & quarta, di Gianluigi Toccafondo. Che come mi si fa notare è collaboratore di lungo corso della Fandango, e autore della sigla. Se ci fate caso lo stile è lo stesso.
E che cognome suggestivo, parlando di balene.

Oltretutto è già la seconda volta che ci casco con Baricco: la prima fu City Reading: Tre storie western, il disco degli Air con sottofondo di testi tratti appunto da City (capiamoci, il libro l’ho preso in prestito in biblioteca & il disco degli Air me l’hanno passato). Ma gli Air, per quanto snob, stronzetti e soprattutto francesi possano essere, sono anche un’ottima band con canzoni strepitose nel curriculum. Nemmeno loro sono nuovi ad operazioni paraculo, avendo firmato la colonna sonora del primo film di Sofia Coppola. Che però era un buon disco, ecco.

Herman Melville
Tre scene da Moby Dick
traduzione di Alessandro Baricco
pp. 144, €12
Fandango, 2009

Giudizio: 1/5.

Herman Melville, Benito Cereno

SCN_0289Una mattina dell’agosto 1799 una nave statunitense, ancorata in una sperduta isola cilena per rifornirsi d’acqua, avvista un’altra nave, in pessime condizioni di manutenzione, che si rivela carica di schiavi neri quando il capitano yankee decide di salire a bordo in visita. Cpt. Delano incontra così cpt. Cereno, suo collega cileno, che gli racconta di tempeste, bonacce prolungate, epidemie. Ma il comportamento di Cereno è sospetto, tanto quanto la sua salute è cagionevole. Nasconde qualcosa? E qual è la ragione dei comportamenti ambigui dei membri del suo equipaggio, dei bianchi quanto dei neri?

Forse devo ricredermi riguardo a Melville―o forse no.
In seguito alla lettura (e ripetuta rilettura) di Moby Dick e Bartleby, stavo iniziando a convincermi che per tutte le sue opere valesse lo stesso principio, ovvero che la loro fruizione prescindesse dal fatto di conoscerne già la trama. Benito Cereno funziona in un modo diverso, direi opposto: l’intera costruzione narrativa si fonda sulla conoscenza (o meno) di alcuni dettagli. Perciò ha ragione chi vi mette in guardia dal rischio di rovinarvi la sorpresa, ma in fin dei conti il risultato sarebbe il medesimo: vi ritroverete comunque a rileggere una seconda volta questa novella magistrale, alla luce delle rivelazioni apprese nel frattempo; e poi a rileggerla ancora, e ancora, perché a Melville non si sfugge. Questo è l’ennesimo suo capolavoro (il 2011 è stato finora il mio personale anno melvilliano) e a questo punto sono davvero molto curioso delle altre Piazza Tales: finora ne ho lette due, e se tanto mi dà tanto…

Benito Cereno quindi è una novella basata sulle sottigliezze della trama e del linguaggio, uno studio sopraffino su punti di vista e verità apparenti. È una storia di mare, l’ennesima, e più simile alle prime pubblicate da Melville che non al capodoglio letterario. Ma è successiva a quest’ultimo di quattro anni, e si vede. Si tratta del suo testo più sofisticato, e del più attuale.
La dimensione marinara è uno dei livelli di lettura (prediletto da Pavese), e ci sono pagine splendide anche in traduzione.
Ma, come già in Moby Dick, Melville riesce a condensare metaforicamente la situazione politica mondiale nel microcosmo di una nave. Come in Moby Dick, la vicenda è ispirata ad un fatto di cronaca ma lo trascende. La quantità di rimandi politici nel testo è impressionante.

Il capitano Amasa Delano del Massachusetts, il capitano Benito Cereno del Cile (all’epoca ancora colonia dell’impero spagnolo) e gli schiavi neri a bordo della S. Domenico, tra cui Babo servo personale di Cereno, sono simboli della realtà coloniale dell’epoca, persino dei tre continenti. Anche la data assume un valore simbolico, la vigilia del 19° secolo. Cereno appare chiaramente inadatto al comando (è davvero così?), ma anche lo yankee Delano non ci fa una bella figura. E i neri?
Chi accusa Benito Cereno di razzismo travisa la complessità e la profondità del testo. La verità è che Melville era post-coloniale mezzo secolo prima che Kipling parlasse di ‘fardello dell’uomo bianco’. Melville dimostra che una società schiavista, anche una ‘dal volto umano’, non può che portare ad una rivolta violenta―magari insensatamente e spropositatamente violenta.
La dimensione politica di Moby Dick viene spesso sottostimata. Ma la carriera di romanziere di Melville, che durò solamente una decina d’anni (1846-57, altro fatto poco noto), si sviluppò alla vigilia della guerra civile statunitense (1861-5): e le sue opere, questa inclusa, risentirono dello zeitgeist.

Quanto alla preveggenza ed importanza di questo testo, basterebbe citare un dettaglio.
Il nome della nave fa riferimento allo stato di Santo Domingo, teatro della rivoluzione haitiana (1791-1804), la rivolta degli schiavi neri guidata da Toussaint Louverture, in seguito alla quale Haiti divenne il primo stato indipendente fondato da ex-schiavi, il primo stato nero moderno: il primo post-coloniale. L’isola, oggi nota come La Española, era stata il primo approdo di Colombo nel Nuovo Continente, che la battezzò Hispaniola.
Con un rovesciamento surreale e tipicamente sudamericano, la rivolta ispirata alla rivoluzione francese venne poi repressa da Napoleone. Quello fu l’inizio del 19° secolo americano, il secolo melvilliano. Concluso, non a caso, dalla guerra ispano-americana del 1898 (che gli States vinsero, ottenendo Puerto Rico e Cuba).

Come fa notare De Cataldo nell’intro (breve ed essenziale, bravo!), il nostro è il punto di vista privilegiato di chi ha conosciuto il primo presidente statunitense di colore. La strada è stata lunga, e non è questo il luogo per ripercorrerla. Ma la strada è ancora molto, molto lunga per “l’elezione del prossimo, inevitabile, Obama europeo”. In questo senso l’Italia, retta da un’economia schiavista, è uno stato compiutamente sudista.
Per contro, ‘Babo’ è diventato presidente: Laurent Gbagbo è stato presidente della Costa d’Avorio negli ultimi 11 anni.

Poi ci sarebbe la questione femminile in Benito Cereno. Perché, nonostante sia l’ennesimo racconto di mare, questo non è esclusivamente maschile. Però l’ho già tirata anche troppo per le lunghe… insomma, leggetelo!

Dulcis in fundo, ho appena scoperto che esiste anche una Melville House Publishing: http://www.mhpbooks.com

Herman Melville
Benito Cereno (1856)
traduzione di Massimo Bacigalupo, introduzione di Giancarlo De Cataldo
pp. 112
L’Espresso, 2011

Giudizio: 5/5.

Herman Melville, Bartleby lo scrivano

La rinuncia di Bartleby.

Bartleby & Moby Dick
La tentazione di un paragone fra i due testi, sulle orme di Borges, è irresistibile.
Ad una prima analisi emerge ovviamente una serie di contrapposizioni binarie: da una parte la narrazione abnorme, mostruosa, senza limiti di Moby Dick, che fagocita nella forma romanzesca l’epos e la tragedia; dall’altra la misurata eleganza quasi minimalista di Bartleby. L’avventura marinara che si dipana negli oceani del mondo è agli antipodi di una vicenda urbana che a ben vedere ha solo due locations e in cui accade poco più di nulla.
Emergono però numerosi parallellismi, precisi e sconcertanti.
Ahab e Bartleby vanno entrambi incontro alla morte, a causa della propria ostinazione. Sebbene Ahab sia ossessionato, e Bartleby piuttosto rassegnato. Entrambi agiscono contro ogni logica e ogni senso comune, contro gli espliciti appelli di conoscenti e colleghi. Siamo forse di fronte a due forme estreme di individualismo? Di certo i due personaggi sono dei solitari: Borges lo considera “il tema costante di Melville; la solitudine fu forse l’avvenimento centrale della sua sventurata vita”.
La loro entrata in scena inoltre è ritardata (un quinto della narrazione già alle spalle) & sapientemente preparata da quanto viene anticipato sul loro conto.

Perché l’opposizione binaria Ahab/Bartleby si sdoppia, e in entrambi i casi la vicenda viene esposta in prima persona da un narratore interno. La tecnica narrativa viene qui riproposta, ed a prendere il posto di Ishmael è in questo caso l’ultimo datore di lavoro di Bartleby, l’anonimo avvocato che non rivela mai il proprio nome (nessun “Call me Ishmael” qui). Sia l’uno che l’altro sono testimoni, inizialmente partecipi ma infine impotenti, della risolutezza con cui Ahab e Bartleby procedono verso l’autodistruzione.
Queste due coppie sono affiancate da altri personaggi, il cui numero è naturalmente notevole nel caso del romanzo e limitato nel racconto. Turkey, Nippers, Ginger Nut (non mi riesce di usare i nomi italianizzati) e gli altri personaggi sono i comprimari: persone per la maggior parte mediocri, insignificanti, magari sgradevoli; incapaci anche solo di immaginare la vita interiore di Bartleby, individuo probabilmente altrettanto anonimo se non per il suo comportamento―cioè per la sua caparbietà intellettuale.

La scelta di Bartleby
Dopo aver raccontato della morte di Bartleby, misera eppure a suo modo dignitosa, il narratore svela l’unico retroscena che è riuscito a scoprire sulla vita precedente del proprio ex-stipendiato; e si tratta solo di una voce di incerta veridicità. Ma questa rivelazione crea una risonanza con quanto ci era già stato narrato, che a mio parere è la vera chiave di lettura (se non altro di questa mia lettura) del testo. Bartleby lo scrivano, che per lavoro copiava aridi documenti notarili, era precedentemente impiegato all’ufficio delle missive smarrite a Washington; in quel caso il suo compito era bruciare le lettere che non erano mai giunte a destinazione; lettere spesso importanti ma ormai inutili.
C’è quindi una chiara contrapposizione tra (ri)produzione ed eliminazione.

E trovo curioso che l’escamotage narrativo di Melville inverta la corretta sequenza cronologica; poiché la verità, apparentemente, è che Bartleby abbia dibattuto per qualche tempo con se stesso le conseguenze emotive del suo impiego alle Poste, quell’umanità perduta e data alle fiamme quotidianamente; abbia cioè tentato di opporsi agli effetti della distruzione (e in questo senso il suo grigio lavoro di copista acquista una forte simbologia); ma che sia stato incapace di contrapporsi, e che alla fine l’istinto di morte abbia avuto la meglio.
Bartleby rinuncia; diminuendo progressivamente la propria vita; fino alla sottrazione finale. Non a caso uno dei suo primi dinieghi riguarda la decisione, dapprima temporanea e poi definitiva, di non copiare (ri-produrre) più. Nelle lunghe ore di riflessione, trascorse ad una finestra che dà su un muro, Bartleby chiaramente non guarda fuori ma dentro di sé. Non trovandovi le ragioni, o forse la forza, di continuare a vivere. Scegliendo di rinunciare.

La scelta di Bartleby non riguarda una qualche forma di opposizione all’ordine costituito, e/o di disobbedienza. È una ricerca più profonda, intima. Che lui porta avanti caparbiamente, coerentemente, fino alle ultime conseguenze.
Questa interpretazione non è forse giustificata dal testo, o magari meno di altre; forse è già stata espressa, meglio di come l’abbia fatto io. Di certo ha un profondo significato per me; e sono felice di aver riletto il racconto in un determinato periodo della mia vita. Porterò Bartleby con me a lungo, forse per sempre.

La solitudine di Bartleby
Come dicevo all’inizio citando Borges, la solitudine è senza dubbio uno dei temi principali del racconto. Che ruolo ha nella scelta del protagonista? Ha scelto la solitudine?
Magari il mio è un caso di wishful thinking, ma la mia convinzione è che Melville volesse implicare che se Bartleby non fosse stato solo, così radicalmente solo, non avrebbe preso quell’ultima decisione; forse nemmeno le precedenti. Eppure Bartleby è un simbolo di estrema sincerità intellettuale, nei confronti di se stesso prima che degli altri; mi sembra anzi che ogni rapporto sociale sia per lui secondario, subordinato (e quindi, eventualmente, prescindibile) alla propria vita interiore.
Eppure la sua non è forse una forma di empatia molto profonda, nei confronti di persone che con tutta probabilità non ha mai nemmeno conosciuto?

Lo scrivano
Perché dunque ambientare una parabola così universale in un contesto tanto specifico? Forse, riprendendo quanto dicevo all’inizio, Melville cercava un contrappunto alle narrazioni marinare, che avevano occupato metà della sua pur breve carriera di romanziere. Io credo però che davvero cercasse temi genuinamente nuovi nell’ambito della letteratura: come recita l’incipit del racconto, “an interesting and somewhat singular set of men, of whom as yet nothing that I know of has ever been written:—I mean the law-copyists or scriveners”.

Del perché questa recensione contiene spoilers
Sto iniziando a convincermi che la trama abbia un ruolo secondario, subordinato (e quindi prescindibile) nella narrativa melvilliana. Pensateci, quanti conoscono l’epilogo di Moby Dick, pur non avendolo letto? Eppure questo non danneggia il valore, o anche solo il piacere, della lettura. Per non parlare del fatto che, spesso, si tratta di trame esili.

La biblioteca di Babele, Edizione Franco Maria Ricci
Alcuni anni fa, occupandomi di Gianni Celati scoprii che aveva lavorato anche come traduttore, tra le altre cose proprio di Bartleby the Scrivener. Incuriosito cercai il testo nelle biblioteche universitarie, imbattendomi invece in un’edizione brossurata della Biblioteca di Babele, la collana di testi curata da Jorge Luis Borges. In occasione di un gruppo di lettura di Moby Dick ho deciso di riprendere in mano il testo, scoprendo che la mia biblioteca cittadina ha in catalogo una splendida edizione limitata, sempre della Biblioteca di Babele: cartonata, stampata su carta a mano con filigrana, tipograficamente ricercata, arricchita da un disegno di Tullio Pericoli in copertina. Non voglio sapere quanto possa costare un gioiellino del genere, talmente chic che il prezzo nemmeno è riportato e talmente esclusivo che il titolo dell’opera non compare sulla copertina.
La traduzione è quella di Enzo Giachino.
Mi rimane la curiosità di leggere la versione di Celati.

Herman Melville
Bartleby lo scrivano (1853)
traduzione di Enzo Giachino, prefazione di Jorge Luis Borges
pp. 80
F.M. Ricci, 1992

Giudizio: 5/5.

Herman Melville, Poesie

Il poeta
Dopo una carriera da romanziere durata poco più di un decennio (1846-57, se escludiamo il tardo Billy Budd), Melville si dedicò per trent’anni alla poesia. Nel 1866 pubblicò una raccolta sulla guerra civile statunitense, Battle Pieces and Aspects of the War, che sarebbe interessante leggere a fianco dei Drum-Taps di Whitman. Pubblicò anche altre due raccolte, a proprie spese e in sole 25 copie ciascuna; e soprattutto pubblicò Clarel: A Poem and Pilgrimage to the Holy Land, un poema epico che è il più lungo componimento poetico della letteratura americana, e conta più versi di opere quali l’Iliade, l’Eneide e Paradise Lost. Alla sua morte, Melville lasciò inoltre molte poesie manoscritte—come del resto lo stesso Billy Budd.
Oltre ad una vena narrativa probabilmente senza eguali, Melville ne possedeva quindi una lirica invidiabile. E se è vero che scrisse più prosa che poesia, questo è vero anche di Whitman e di Eliot, la cui produzione poetica è minore di quella melvilliana (confesso di averlo scoperto da wikipedia).

I poemi
Le poesie qui presenti sono di lunghezza contenuta: raramente eccedono qualche decina di versi, e in un paio di casi si tratta perfino di singole quartine. Nei pezzi della prima raccolta, la guerra civile è rappresentata vividamente. Ad esempio in The House-Top. A Night Piece:

All civil charms
And priestly spells which late held hearts in awe—
Fear-bound, subjected to a better sway
Than sway of self; these like a dream dissolve,
And man rebounds whole aeons back in nature
.

Il pezzo, composto nel luglio del 1863, nel bel mezzo della guerra, dipinge un deserto di tetti oppresso da una calura tropicale, in una notte illuminata di roghi e animata dal rombo degli scontri.

Prevedibilmente, nei versi di Melville torna spesso la sua principale fonte d’ispirazione: il mare. To Ned, apparentemente autobiografico, è un ricordo nostalgico della giovinezza spensierata passata nei porti del mondo, negli Eden dei mari pagani, tra “gli ozi dei Taipi, sotto stelle ignote alla shakespeariana Notte di mezza estate”. Ovviamente, trattandosi di Melville, il mare diventa metafora: The Berg. A Dream descrive una nave impeccabilmente equipaggiata e “dallo scafo marziale” fare rotta contro un iceberg, fino a schiantarsi. Una simile risolutezza autodistruttiva, “guidata dalla sola pazzia”, richiama quella del Pequod, ed entrambi i testi sembrano commentare la situazione politica di una nazione lanciata senza rimorsi verso la guerra civile.
Anche quando sono ben piantate sulla terra ferma, nelle poesie di Melville si respira la salsedine: come nell’incipit di Misgivings (una delle mie preferite), in cui nuvole oceaniche sorvolano colline e valli dell’interno, cupe di presagi. Il poema è del 1860, l’anno precedente all’inizio del conflitto. Di fronte ad una simile potenza lirica, i battle pieces commemorativi sono in fin dei conti i meno interessanti.

L’edizione
Una delle cose che faccio quando mi annoio è spulciare il catalogo della biblioteca, e questa è una delle curiosità scovate. Si tratta della prima pubblicazione italiana delle poesie di Melville, un’edizione del 1947 della fiorentina Fussi. In questa stessa collana (Il Melagrano) avevo già letto La terra desolata di Eliot, la cui prefazione mi aveva quasi commosso: parlava al presente dell’autore, all’epoca ancora vivo. E se a questo aggiungete la copertina vissuta e le pagine ingiallite… oltre al fatto che la collana è molto curata: libri programmaticamente piccoli (un’ottantina di pagine), con testo a fronte e una bella veste tipografica. E numerati! Questa è la copia n. 893 di 1500. Davvero una scoperta gradevole, ed una buona introduzione alla poesia melvilliana.

Ed ora posso passare ai racconti di Whitman…

Herman Melville
Poesie
traduzione di Luigi Berti
pp. 75
Fussi, 1947

Giudizio: 3/5.

Samuel Taylor Coleridge, La ballata del Vecchio Marinaio & Kubla Khan

Nell’era di Project Gutenberg la ragione per cui ho preso in prestito quest’edizione è duplice: il piacere di rileggere l’originale e la curiosità di consultare la traduzione.

E sono rimasto deluso: sebbene Ceni sia poeta in proprio, e dovrebbe quindi essere lecito supporre una sua familiarità profonda quantomeno con la ligua d’arrivo, il risultato secondo me lascia a desiderare. Perde (inevitabilmente) la musicalità e il ritmo dell’originale senza conseguirne una propria, scadendo anzi a tratti nel ‘traduttorese’.
Forse sono io a non saperla abbastanza lunga, e a non rendermi conto che il buon Ceni non poteva fare di meglio con gli strumenti a sua disposizione; forse il confronto con Coleridge è davvero troppo impari.

Quanto all’originale, mi ha entusiasmato ancora una volta; non tanto per la pur decantata prosodia, un po’ scontata per quanto sorprendentemente efficace, ma piuttosto per la straordinaria vividezza con cui la vicenda viene narrata. Il testo trasmette suoni, voci, colori, sensazioni tattili e perfino olfattive.
Molto interessanti anche gli inserti in prosa, che non conoscevo: è vero che interrompono il ritmo incalzante dei versi, ma per chi ha già letto il poema sono un piacevole commento inter-testuale. E citando Borges, non posso non notare che la prosa non è meno poetica dei versi…

Samuel Taylor Coleridge
La ballata del Vecchio Marinaio & Kubla Khan (1798)
traduzione di Alessandro Ceni, introduzione di Ettore Canepa
pp. xx – 66, €5
Feltrinelli, 2002

Giudizio: 4/5.

Samuel Taylor Coleridge, The Rime of the Ancient Mariner

The publishing of Lyrical Ballads, with a Few Other Poems in 1798 is usually regarded as the birth certificate of the Romantic movement in English litterae.
William Wordsworth and Samuel Taylor Coleridge, deliberately breaking away from the common taste of the age, had underlined in the opening Advertisement the “experimental” and innovative character of their compositions. It had been their program to write poetry in the lower and middle registers, with a particular focus on “painting manners and passions” and an explicit link “with our elder writers”. All of which applies to the poem in question. The Rime takes place of honour as the opening poem of the collection, and by far also the longest.
It was actually one of the very few contributions on Coleridge’s part, and an ill-fitting one at that. Wordsworth came to think that “the old words and the strangeness” of it turned readers away from the rest of the collection (made up largely of his own poems). His final comment on the poem, though, is a perfect statement of pros and cons:

The Poem of my Friend has indeed great defects; first, that the principal person has no distinct character, either in his profession of Mariner, or as a human being who having been long under the control of supernatural impressions might be supposed himself to partake of something supernatural; secondly, that he does not act, but is continually acted upon; thirdly, that the events having no necessary connection do not produce each other; and lastly, that the imagery is somewhat too laboriously accumulated. Yet the Poem contains many delicate touches of passion, and indeed the passion is every where true to nature, a great number of the stanzas present beautiful images, and are expressed with unusual felicity of language; and the versification, though the metre is itself unfit for long poems, is harmonious and artfully varied, exhibiting the utmost powers of that metre, and every variety of which it is capable. It therefore appeared to me that these several merits (the first of which, namely that of the passion, is of the highest kind) gave to the Poem a value which is not often possessed by better Poems.

Note in passing the stress on feeling and imagery over reason and equilibrium. How Romantic.
As for the ‘old words’, Coleridge programmatically used archaic spellings and constructions in order to achieve what we would now call a vintage look. This is what the Advertisement has to say on the point:

The Rime of the Ancyent Marinere was professedly written in imitation of the style, as well as of the spirit of the elder poets; but with a few exceptions, the Author believes that the language adopted in it has been equally intelligible for these three last centuries.

In point of fact Coleridge revised the poem in 1817, modernising some forms (title included), adding a few stanzas, and including an explanatory gloss that is now justly famous in its own right. This edition follows the later version—but sadly omitting the gloss.

This is my third or more probably fourth reading of The Rime. And for all its shortcomings, it is always a pleasure. However unnatural and contrived, both the language and the imagery are extremely powerful. And it’s funny how the most artificial passages are often the most effective: the description of Cape Horn frosted with ice is just one among my personal favourites. Otherwise there’s no shortage of sea birds, sea monsters, sea gods, ghost ships, oceanic scenery and a whole boatload of mariners’ talk: a must for all lovers of sea narratives!
Pointedly, the poem has been interpreted as symbolizing a great many things. Christianity, paganism, the Wandering Jew… Personally I’m more interested in the sheer number of these readings than in each or any of them: such wealth of interpretations is perhaps the best testimony to its aesthetic value. Oh and obviously it has been in time quoted by Herman Melville, Bram Stoker, Mary Shelley, The Pogues… among countless others. The Ancient Mariner is still in perfect good health.
Finally, I have always loved the fact that the closing message is one of animalism ante-litteram, albeit on religious grouds:

He prayeth best, who loveth best
All things both great and small;
For the dear God who loveth us
He made and loveth all.

Samuel Taylor Coleridge
The Rime of the Ancient Mariner (1798)
pp. 48, €8/copyleft
Dodo Press, 2008

Giudizio: 4/5.