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Gianni Celati, La banda dei sospiri

E questo è il famoso sonno della giovinezza quando si fanno tanti sogni, e poi qualcuno riesce a svegliarsi e altri no”.

Seconda parte della trilogia composta da Le avventure di Guizzardi (1972), La banda dei sospiri (1976) e Lunario del paradiso (1978), riunita nel 1989 sotto il titolo di Parlamenti buffi.

Uno dei libri più divertenti mai letti.
È un romanzo di formazione, anche se me ne sono accorto dopo un pezzo. È anche uno dei più belli, e pure questo io l’ho capito tardi. Perché Celati è un maestro della dissimulazione.

Il libro è il racconto in prima persona di  un bambino (soprannominato Garibaldi “perché corre sempre”) della propria infanzia e giovinezza, e delle persone che la popolano. La galleria dei personaggi è impagabile; nessuno ha un nome proprio, solo soprannomi. L’indolente fratello maggiore di Garibaldi addirittura li cambia a seconda delle sue letture più recenti: prima Strogoff, poi Nemo e infine Fogg. Il padre, guardia notturna perennemente inviperito con i superiori, viene chiamato Barbarossa per il carattere irascibile. Molti soprannomi poi sono cinematografici: l’aiutante della madre sarta è chiamata Veronica Lake (con prevedibili conseguenze sui maschi della famiglia, quando lei si trasferirà in casa…), il fratello di lei Alan Ladd.
Spesso Garibaldi, a causa della giovane età, non capisce appieno le situazioni in cui si trova coinvolto, generando equivoci che per le risate faranno rovesciare dalla sedia i lettori: ad esempio nei suoi primi approcci sessuali…

Ma, come dicevo, Celati è un maestro della dissimulazione.
La voce narrativa di Garibaldi è colloquiale, bassa, sgrammaticata: uno slapstick assolutamente esilarante. Eppure dissimula un vocabolario ricco per quanto strampalato. L’immediatezza della narrazione cela una ricerca ed uno studio accurati; tra le righe del racconto di Garibaldi bambino va spesso ricostruito il non detto. Come nel caso dello zio d’Australia, fratello di Barbarossa e “un bel po’ ammalato di politica, che in Australia non si trovava bene perché il governo voleva assassinarlo” la cui bella moglie è vedova di un altro emigrante “morto laggiù di crepacuore assassinato dal governo”. E questo è solamente un esempio di quanto sia smaliziato Celati, e di quale sia la sua maestria nel filtrare il tutto attraverso lo sguardo di Garibaldi.
Il titolo stesso cela più di un significato.
La banda dei sospiri non è solo la sgangherata famiglia perennemente afflitta di Garibaldi, ma anche il nastro magnetico su cui il racconto del narratore, ovviamente orale, viene registrato. Allo stesso modo i Parlamenti buffi non sono curiosi assembramenti politici quanto racconti, chiacchiere, parole nel registro basso. Non a caso, nella copertina dell’edizione Feltrinelli Impronte 1989 c’è un quadro di Pieter Bruegel, Giochi di fanciulli del 1560.
Non sono sicuro che quell’edizione sia ancora reperibile, ma il libro è nel catalogo Feltrinelli—sebbene fosse stato pubblicato in origine da Einaudi, probabilmente per intercessione di Calvino, a cui Celati era legato da ammirazione e stima reciproca. I parlamenti buffi sono infatti dedicati alla memoria di Calvino.

Ho letto il libro per un corso universitario: Enrico Palandri, il professore, era un ex-allievo di Celati,  e questo ha creato un curioso corto circuito docente/studente. Mentre preparavo l’esame nella biblioteca umanistica dell’università, nella sala al primo piano (molto più tranquilla di quella al pian terreno, dove per forza di cose c’è sempre un certo via vai di gente che entra ed esce), non riuscivo a smettere di ridere ogni due paragrafi.
Il libro ho dovuto portarmelo a casa.
Mica potevo continuare a ridere a quel modo.
Non in pubblico!

Gianni Celati
La banda dei sospiri: Romanzo d’infanzia, in Parlamenti buffi
pp. 400, €16,53
Feltrinelli, 1989

Giudizio: 4/5.

Gianni Celati, Alice disambientata

Enrico Palandri, attualmente docente a Ca’ Foscari, mi ha detto di non essere soddisfatto di questo libro. Lui era fra gli studenti del DAMS di Bologna che seguirono il corso che Celati tenne nel ’77 sulla letteratura del nonsense, in primis su Lewis Carroll. La Alice di Carroll era all’epoca un simbolo per tutto il movimento (da cui anche il nome di Radio Alice) e Celati era un critico acuto e attento.

Ristampato trent’anni dopo (c’è una riproduzione della copertina originale delle Ed. Quadrifoglio), il libro è un documento molto interessante di cosa si studiava in quei mesi concitati, ma anche di come. Il testo è letteralmente costellato di note a margine che riportano i commenti a latere di studenti e studentesse alle lezioni: un  florilegio di punti di vista discordanti, deviazioni, contronarrazioni. Aver mantenuto l’impianto plurale e collettivo del discorso è a mio parere uno dei meriti di Celati, anche se paradossalmente il risultato dovesse risentirne. In verità il testo è un po’ sui generis: a tratti è ripetitivo, mentre alcuni punti sono concettualmente molto densi.

Molto belle le foto (la copertina non è tra le migliori). Alcune sono drammatiche, come i carri armati in città o la famosa ragazza con carabinieri; altre invece sono impagabili, come gli slogan che sembravano tappezzare ogni superficie:

“L’anima è la galera del corpo”
“Dichiaro lo stato di felicità permenente”
“GIÙ LE MANI DA RADIO ALICEEEEEEEE!”

Paradossalmente, se dovessi farmi firmare un libro da Celati, sceglierei questo.

Sull’epoca di questo libro

L’allegria che ha cercato di farsi strada nel nostro libro deve sempre rinunciare all’idea di sapere come stato di coscienza, il sapere stagno da professionista patentato. E deve accettare questo modo slegato, pagliaccesco, con alti e bassi secondo i momenti. Perché la positività è sempre questione di momenti; è l’atmosfera, l’intonazione del momento esaltante o angoscioso, in cui si annuncia un’apertura mentale. L’adesione al movimento trascende ogni tipo di sapere, ogni forma d’interiorità, perché ci rimanda ad un avvenire al di là di noi; e mentre sospendo le ansie competitive, aiuta a pensare a una comunità possibile, senza “messaggi”.
— 
Gianni Celati, novembre 2006

Gianni Celati
Alice disambientata: Materiali collettivi (su Alice) per un manuale di sopravvivenza
postfazione di Andrea Cortellessa
pp. 160, €15
Le Lettere, 2007

Giudizio: 3/5.

Enrico Palandri, La deriva romantica

Enrico Palandri è docente alla Ca’ Foscari di Venezia e alla UCL di Londra (pendolarismo radicale) e questa raccolta di saggi tra critica letteraria, considerazione personale e autobiografia era parte del programma d’esame del suo corso. Io l’ho vissuto soprattutto come un’estensione delle sue lezioni, sempre attente al dialogo con gli allievi (e in quest’ottica mi è dispiaciuto molto che la mia annata, a causa delle varie facoltà di provenienza degli studenti, fosse in un certo senso fin troppo eterogenea e giungesse raramente a un punto d’incontro). E d’altro canto le riflessioni di Palandri partivano spesso da questi suoi scritti, o da altri che si premurava di spedirci via email; ricordo ancora quello sullo “spatrio”, un tema senz’altro cruciale per scrittori transfughi come lui e Celati.

Inizialmente il tono troppo ‘orale’ del testo mi ha un po’ stizzito, ad esempio nell’iniziale capitolo sulle metafore; poi ho capito che Palandri, di persona come sulla pagina, riesce sempre a mantenere una sua levità.
La raccolta traccia un interessante percorso a ritroso nella letteratura italiana, da Tondelli (coetaneo e amico di Palandri, che già gli aveva dedicato Pier) passando per Celati e Calvino fino a Nievo e Leopardi. A volte il tono diventa personale, ma sarebbe ridicolo e forse anche ipocrita fingere di non aver conosciuto gli autori in questione.
All’esame io ho portato proprio Celati, che era stato insegnante di un’intera generazione della Bologna del ’77: oltre a Palandri, ai suoi corsi c’erano Pazienza, Freak Antoni…

Avrei voluto chiedergli come si coniugano, in un testo come questo, le esperienze personali con l’analisi critica. Ma l’esame era molto affollato e ora mi resta la speranza d’incontrarlo a Venezia, prima o poi.

Enrico Palandri
La deriva romantica: ipotesi sulla letteratura e sulla scrittura
pp. 132, €15
Interlinea, 2002

Giudizio: 3/5.

Pino Cacucci, Le balene lo sanno

Sono venuto per le balene e sono rimasto per il paesaggio.
Ovvero: inizialmente è stato il titolo ad attirarmi (chi non ama le balene? oltretutto io sono uno di quelli che “apre Moby Dick come fosse l’I-Ching”); ma una breve occhiata è bastata a capire che si tratta di un libro di viaggi nella Baja California, e a quel punto sono stato stuzzicato forse anche di più, dato che le Americhe sono il mio ambito di studi.

Cacucci ha attraversato la California messicana da sotto in sù anziché secondo la più popolare direzione da nord a sud. Nella migliore tradizione epica l’incipit è in medias res (che qui significa, ça va sans dire, a metà penisola), e subito in compagnia delle balene grigie, che nelle baie della Baja vengono a partorire tutti gli anni. E che, per la gioia del sottoscritto, tornano spesso anche nelle pagine del libro.
Con il secondo capitolo torniamo all’inizio del viaggio, e al background delle sue motivazioni.
Cacucci alterna efficacemente il resoconto dei luoghi visitati agli aneddoti che i suoi anni messicani gli hanno lasciato in ricordo; come se volesse riprodurre i tempi della sua Dodge Durango, e riempire con le storie le pause nel viaggio. E ne ha un numero impressionante, di aneddoti da raccontare; non proverò nemmeno a menzionarne alcuni perché sarebbe riduttivo. Molti sono davvero stupefacenti.
Inoltre è evidente che Cacucci, con la sua barba brizzolata e il gilet da professional traveler (v. foto), è innamorato del Messico; le occasioni in cui può bearsi di non essere uno yanqui sono impagabili.

Pino Cacucci
Le balene lo sanno
pp. 142, €12
Feltrinelli, 2009

Giudizio: 3/5.

Francesco Gabrieli, Viaggi e viaggiatori arabi

Il testo è organizzato così: ad un’introduzione generale che illustra motivi, metodi e direttive dei viaggi durante il medioevo arabo, seguono dieci schede monografiche sulla biografia ed i viaggi dei più significativi viaggiatori arabi, ciascuna corredata da un brano scelto tra i resoconti dei suddetti.
Si va dal primo diario di viaggio a noi noto, del nono secolo, fino a Ahmed Ibn Magid, che nel 1498 fu pilota della spedizione indiana dei Lusiadi di Vasco da Gama. Come a dire: dal periodo d’oro in cui “il Mediterraneo era un lago arabo” (per non parlare dell’Oceano Indiano) all’inizio del colonialismo europeo, che avrebbe portato ad un nuovo capitolo della storia mondiale, non solo nel Vecchio Mondo.

L’argomento è molto interessante, e c’è di che trastullarsi scoprendo (per chi come me è ignorante in materia) l’estensione dei viaggi che durante i ‘secoli bui’ della civiltà europea portarono mercanti, pellegrini, diplomatici, uomini di cultura, persino prigionieri (!) arabi in un autentico Wanderlust attraverso tre continenti.
Non ho letto altri testi sul tema, e non ho l’autorità per sindacare sulle scelte operate dall’autore. Quanto al fatto di zippare intere bibliografie in sole cento&uno pagine, temo non ci sia via di mezzo: prendere o lasciare.
Personalmente mi sono divertito a leggerlo; sebbene rileggerlo, tentando di mandare tutto a memoria per l’esame di letteratura araba, sia stato meno spassoso. Ma la cosa più divertente è in verità la lingua usata dal Gabrieli, vetusta e ormai inusitata, che fa sorridere specialmente leggendo i brani in traduzione.

Dubito che il testo sia di facile reperibilità.
Perché mi prendo la briga di commentarlo?

Francesco Gabrieli
Viaggi e viaggiatori arabi
pp. 102, fuori commercio
Sansoni, 1975

Giudizio: 2/5.

Ornela Vorpsi, La mano che non mordi

Ho conosciuto Ornela Vorpsi ad Incroci di civiltà 2009, a Venezia.

In quell’occasione mi sono rallegrato del fatto che alla buon’ora anche in Italia ci siano autori la cui prima lingua non è l’italiano.
Da quanti decenni si va dicendo che i contributi più interessanti, innovativi, semplicemente belli alla letteratura in lingua inglese vengono dall’India, o dai Caraibi? Per non parlare delle letterature latinoamericane. Non vedevo l’ora che anche la mia lingua subisse questa contaminazione & innovazione.

La lingua della Vorpsi è colta ma porta al contempo segni dell’oralità, ci sono espressioni tipiche della lingua parlata. A mio parere la sua narrazione è molto femminile, procede per associazioni, sensazioni, emozioni. Quella che potrebbe definirsi la narrazione principale viene incessantemente interrotta da altri episodi, ricordi, sentimenti passati. E penso che sarebbe interessante analizzare questa struttura (se l’uso del termine è lecito, in questo caso).

Molto bella la copertina, un’opera della Vorpsi che di per sé sarebbe fotografa. Tra l’altro.

Ornela Vorpsi
La mano che non mordi
pp. 86, €8,8
Einaudi, 2007

Giudizio: 3/5.

Lisa Mattiussi, La casa degli acrobati

Lisa2Premessa
Conosco personalmente l’autrice, che mi ha mandato il suo romanzo d’esordio accompagnato da una dedica lunga così. Ed è mio compito, per sua richiesta, dare un parere obiettivo e imparziale del libro, attenendomi al giudizio (citato nella dedica suddetta) che Yeats diede di Donne: “The more precise and learned the thought, the greater the beauty, the passion”.

Stile
Inizio dalla prosa perché mi è parsa il punto debole dell’opera. Si nota che l’autrice è alla costante ricerca del termine più adatto per definire l’oggetto della narrazione; ma si avverte anche un certo squilibrio tra un’aggettivazione fin troppo preziosa, ostentatamente fuori dall’ordinario, ed espressioni invece colloquiali, poco controllate. Una frase poetica funziona se ad una prima lettura passa inosservata o quasi, se si fonde con il brano che la contiene in modo che questo fluisca armoniosamente; se invece il lettore si rende conto di uno scarto di tono, c’è qualcosa che non va.
La prosa narrativa, ‘artistica’, dovrebbe avere una sua musicalità (e anche quella tecnica, per quanto mi riguarda; ma non pretendiamo troppo dai tecnici…).

Ho trovato intrigante l’idea di trascrivere i dialoghi come fossero un testo teatrale, con tanto di notazioni sul tono di voce; questo espediente poteva però essere sfruttato con più efficacia (o forse sono io ad avere aspettative troppo alte sulla commistione dei generi).
Penso invece che ci siano soluzioni migliori per mostrare una pausa in un dialogo che non la seguente:

“…”
“…”
Attesa.

In breve, ho avuto l’impressione di uno stile ancora acerbo, in attesa di venire ulteriormente affinato.

Trama
Il disegno generale è un po’ un classico degli scrittori della nostra generazione: la voglia di uscire dalla provincia italiana o dall’Italia provinciale; il loft londinese abitato da giovani cosmopoliti e più o meno eccentrici; l’India come ricerca del sé; il ritorno alle radici. In effetti, così riassunta (e sostituendo Londra con la metropoli di riferimento in un dato momento storico) pare un autentico topos della letteratura sul raggiungimento dell’età adulta.

La sezione dedicata all’India mi sembra ben riuscita, pur con qualche caduta di stile. Ho apprezzato che il romanzo scelga una parte del mondo e si dedichi a descriverla nel dettaglio, e soprattutto che lo faccia mediante il particolare, l’esperienza personale. Mi pare evidente che l’autrice si sia basata sulla propria esperienza, sulle sue sensazioni e riflessioni―d’altro canto non si scrive dell’India senza esserci stati, e Lisa è troppo intelligente per fare un errore simile.

La descrizione di Venezia a febbraio mi ha ricordato Brodskij, e non c’è da stupirsene; la Venezia invernale è brodskijana. Mi chiedo se Lisa conosce Fondamenta degli incurabili, perché alcune scene del suo romanzo paiono davvero tratte da lì: il concerto serale con un programma vivaldiano, il personaggio che nel mezzo dell’affollarsi delle maschere carnevalesche s’interessa solamente degli edifici perché sono statici…

Personaggi
Il più riuscito mi è sembrato Alba, l’anziana prozia della protagonista. A lei è riservato un ruolo tutto sommato minore, per quanto fondamentale, nell’economia della storia; eppure le sue sono di gran lunga le pagine più belle, quelle che davvero mi hanno commosso. Forse perché ho raggiunto (e superato…) l’età dei protagonisti, gli acrobati del titolo; mentre, avendo perso nonni e prozie, non mi resta che continuare a interrogarmi sui sentimenti che prova chi ha due volte e mezzo la mia età.

Mi torna in mente il saggio Letteratura e ideologia di Gao Xingjian, il primo premio Nobel cinese, che ho letto subito prima di questo romanzo. Gao sostiene che la qualità di un’opera letteraria dipenda dalla profondità con cui l’autore sa guardare la natura umana, e che questa profondità a sua volta sia un risultato dell’esperienza di vita dell’autore.
Ecco, sono convinto che rappresentare in maniera così toccante la terza età sia una dimostrazione di grande profondità.

Lisa Mattiussi
La casa degli acrobati
pp. 168, €11,5
Editing, 2003

Giudizio: 2/5.

Francesco Cataluccio, Chernobyl

Artemisia, o della dimenticanza.

Non essendo rimaste che pochissime tracce del mondo ebraico di quelle zone, per provare almeno a immaginarlo, conviene fare come Pavel, l’anziano padre di un amico praghese, che, avendo perso tutti i parenti e anche il villaggio dove abitavano, prese, nel dopoguerra, a praticare una strana magia. Di fronte a un oggetto (un candelabro, una foto, un libro, una tazza, un palazzo…)  si copriva ambedue gli occhi con le mani e iniziava a «tirare i fili della memoria».

L’impressione è che Cataluccio, ebreo e polonista, applichi ossessivamente il ‘metodo Pavel’ anche alla storia e alla letteratura. Ogni episodio, ogni incontro, ogni legame merita di venire raccontato e ricordato per non cadere nell’oblio, che fin dal titolo è uno dei temi ricorrenti del libro: nell’episodio iniziale un anacronistico chimico “principe di non so dove”, che parla “un francese un po’ asiatico” e un italiano dal “beffardo accento napoletano”, fa notare a Cataluccio, intento ad acquistare una mappa dell’Ucraina del 1705, che l’etimo di Černobyl’ sarebbe ‘nero stelo d’erba’; forse l’artemisia, pianta della dimenticanza e ingrediente fondamentale dell’assenzio.

Il libro riassume la storia di Černobyl’ sul lungo periodo, ben oltre il suo episodio più celebre; nelle mani di Cataluccio il testo diventa anche un libro sull’Ucraina, ‘sorella’ della sua Polonia: un terzo del volume è occupato dalla ricostruzione di “Che cos’era Chernobyl”, con una particolare attenzione alla sua componente maggioritaria, quella ebraica. Con profusione di nomi e grande sfoggio d’erudizione, Cataluccio racconta di un popolo che accolse lo hassidismo (scomunicato nella Lituania d’origine) e che fu spesso capro espiatorio nelle tensioni etniche di una terra contesa da almeno quattro potenze: Ucraina, Polonia, Russia e Austria. Non a caso ben due guerre russo-polacche, quella del 1654-67 e quella del 1919-20 successiva alla rivoluzione bolscevica, si svolsero principalmente in terra ucraina.
Sono secoli di violenze, rappresaglie, “regolamenti di conti”, pogrom, che tuttavia impallidiscono alla luce degli eventi del Novecento: la carestia degli anni trenta (Holodomor) e l’occupazione nazista. “In Ucraina, sovietici e nazisti compirono massacri simili e indiscriminati”, sostiene l’autore. Tale fu la dimensione della tragedia, se questo termine non è fuori luogo, da portare molti a convincersi che fosse provocata non dall’uomo ma da Satana stesso. E Cataluccio, che da par suo ha già snocciolato citazioni a Taràs Bul’ba di Gogol’ e a L’armata a cavallo di Babel’, oltre a ricordare affettatamente che Józef Konrad Korzeniowski e Vasilij Semënovič Grossman erano concittadini di Berdicev, “la seconda comunità ebraica dell’impero russo”, il nostro Cataluccio ci vede il pretesto per una imprescindibile ricognizione del tema satanico nell’intera letteratura russa. La mia citazione preferita a riguardo è dalla Notte sul Monte Calvo di Modest Mussorgskij (quel Monte Calvo su cui i nazisti compirono fucilazioni di massa): in quell’opera Satana viene chiamato Černobog, “dio nero”, creando ovvie assonanze con Černobyl’.
E c’è chi ha visto la zampa del diavolo anche in quanto successe il 26 aprile 1986, a cui è dedicato il capitolo più importante del libro. L’autore illustra il funzionamento della centrale e le ragioni dell’incidente; riepiloga i primi soccorsi, che “mostrarono da subito impreparazione e improvvisazione”, causando la morte di molte persone coinvolte senza una vera consapevolezza della portata del pericolo; raccoglie in un elenco ragionato le testimonianze, soprattutto fotografiche, realizzate sia in quei giorni che negli anni seguenti; e conclude:

La catastrofe di Chernobyl fu il risultato non voluto, ma fin troppo prevedibile, di un sistema disfunzionale. L’Unione Sovietica scoprì definitivamente l’ormai fragile castello di menzogne e cialtronerie sul quale si basava e il disprezzo totale che il potere cosiddetto comunista aveva per i propri cittadini. L’approssimazione tecnologica, le incertezze organizzative, la paura di alimentare un ingestibile panico e far brutta figura con i superiori, aggravarono ulteriormente le conseguenze dell’incidente e compromisero per gli anni futuri la possibilità di un ritorno alla normalità.

Durante il periodo dell’incidente, Cataluccio era a Varsavia per studio; il fortunoso “Ritrovamento del diario polacco” che aveva redatto in quei giorni restituisce un’atmosfera di un’ironia glaciale, da danza macabra: “Per ora mi diverto ad osservare la campagna per l’invio di tende e sacchi a pelo ai senzatetto di New York. È questa la risposta dell’offeso governo polacco all’offerta di quintali di latte in polvere da parte delle autorità statunitensi”. Il governo polacco, come quello russo, rassicura, zittisce, e solo dopo giorni, “alla buona grazia della Glasnost”, inizia a dar conto dell’accaduto. Nel frattempo, iodio e cibo in scatola spariscono dagli scaffali, mentre arrivano, dall’Italia, notizie allarmanti.

Il tramonto è di un rosso abbagliante. La gente fissa quello strano sole come se stesse per esplodere da un momento all’altro. Gli uccelli volano bassissimi. Persino le cicogne, e sono pericolose.
Tutti sembrano non desiderare altro che dimenticare in fretta.

 Dimenticare. Nell’ultimo capitolo, “La Disneyland della radioattività”, l’autore si chiede se Černobyl’ e la vicina Pripjat’ diverranno un’attrazione turistica della catastrofe (vedi www.pripyat.com) con tanto di ‘finti’ allarmismi sulle radiazioni. “Come a Cracovia, ti propongono la gita in giornata ad Auschwitz”, scrive il polonista. Per ora, attorno a Kiev continuano a spuntare lussuose dacie in riva al Dnepr, pericolosamente vicine al sito del disastro. E la “generale ‘lumpenizzazione’ di tutto e di tutti” provocata dai soldi dei nuovi ricchi e della mafia ucraina (parole del poeta Andruchowycz) ha anche cause profonde:

 il carnevale del sesso facile post-sovietico, oltre che un rapido mezzo per fare soldi, rappresenta anche un diffuso desiderio di oblio: si dimenticano le tragedie del passato in una sorta di orgia che esclude però la maggioranza della popolazione, che continua a impoverirsi.

 Con l’episodio iniziale Cataluccio voleva forse guadagnarsi un posto tra i fautori degli etimi inventati. I miei contatti slavisti mi spiegano, libri alla mano, che se černij significa nero, byl è il passato maschile del verbo essere. Ma anche questo etimo ha risonanze profonde con Černobyl’, non solo con il suo oscuro passato ma anche con quanto accadde in quell’aprile del 1986:

Katija P., anche lei di Pripjat’, racconta: «A mezzogiorno non c’erano più i soliti pescatori sulla riva del fiume, erano rientrati a casa tutti neri, con un’abbronzatura che nemmeno un mese di villeggiatura a Šoci… l’abbronzatura nucleare!»
I volti dei primi vigili del fuoco erano neri come la grafite e gli occhi «erano già gli occhi di persone consapevoli di doverci lasciare».

p.s. forse Cataluccio vive sul lato oscuro della luna, ma il disco più famoso dei Pink Floyd non è Atom Heart Mother, e citarlo giusto perché c’è l’atomo nel titolo è del tutto gratuito.

Francesco Cataluccio
Chernobyl

pp. 170, €12
Sellerio, 2011

Giudizio: 4/5.

Francesco Cataluccio, Vado a vedere se di là è meglio

Polacchi di tutto il mondo, disperdetevi.

Esattamente come Safran Foer in Eating Animals, tradotto in italiano con Se niente importa, anche Cataluccio apre il suo libro più autobiografico riconoscendo nella nonna, ebrea e reduce dalla Shoah, il perno etico e morale della famiglia, la portatrice dei valori a cui l’autore si richiama. Negli anni formativi a Firenze fu Rachele, la nonna del suo migliore amico d’infanzia, a raccontare ai due bambini dei “trentasei Giusti che vivono nell’oscurità e con le loro virtù salvano il mondo dall’annientamento. Proprio così: «dall’annientamento». Che in ebraico si dice Shoah, e in polacco Zagłada”.
Ed è in un certo senso alla ricerca dei Giusti, dice Cataluccio, che alla morte della nonna Giulia “iniziai ad andare a zonzo, senza un fine preciso, e ancor oggi non riesco a fermarmi. Ogni tanto prendo armi e bagagli e vado via. Solo molto tempo dopo capisco dove sono stato”.
Anni dopo, frequenta all’università i corsi di Filosofia ma decide “di studiare una lingua «nemica»: il polacco. […] Al primo anno eravamo quattro gatti, ma non ho mai dubitato che quella eccentrica scelta sia stata una delle migliori intuizioni della mia vita!”. Tra le ragioni di questa convinzione c’è la tradizione secolare che vede nelle Polonia, nonostante gli episodi di antisemitismo, “una sorta di «Paradisus Judaeorum»”; oltre ad un’affermazione che il prosieguo del libro sembra confermare: “ovunque uno vada per il mondo, trova sempre qualcuno che parla polacco”!

 Nelle prime dieci pagine sono quindi racchiuse le chiavi di lettura di questo folto e denso volume. I ventidue capitoli, dedicati ciascuno ad una diversa città (le prime due sono ovviamente Firenze e Varsavia), raccontano i vagabondaggi dell’autore e i suoi dotti incontri. E se la dimensione autobiografica dovrebbe contribuire a coinvolgere il lettore, lo sfoggio che Cataluccio fa della propria cultura e il suo citazionismo compulsivo raggiungono rapidamente una statura auto-parodistica. Inoltre i suoi viaggi danno spazio non di rado a voli pindarici, pretesti per il name dropping. Non mancano ovviamente molti episodi interessanti, e per gli amanti del mondo ashkenazita, della cultura mitteleuropea e slava, il testo è una miniera; ma l’effetto generale è di un eccessivo sovraffollamento.
Quando poi esce dal proprio ambito di studi per entrare nel mio, ad esempio nel capitolo su Buenos Aires, Cataluccio diventa approssimativo, tratta la storia della città e i suoi abitanti con sufficienza, sbaglia gli accenti (lui che è così pignolo con i vari Łódź e gli altri impronunciabili nomi polacchi). Il periodo di residenza a New York è per lui “come essere in Polonia. […] Per due settimane non parlai quasi mai l’inglese”.
Cataluccio vagabonda per buona parte dell’Europa orientale, con qualche capatina ad ovest e perfino nel Nuovo Mondo, ma ovunque vada cerca sempre la stessa cosa: polacchi ed ebrei. Possibilmente ebrei polacchi. C’è da chiedersi perché non sia stato a Chicago, la terza città polacca per numero d’abitanti (fonte la guida Lonely Planet: Nate Cavalieri, Chicago: incontri.  Torino: EDT, 2010).

 La persona che mi ha prestato il libro mi ha spiegato che è un breviario, e che come tale andrebbe letto. A mio avviso ci sono due possibilità: abbandonarsi al flusso di aneddoti oppure consultarlo a partire dal folto indice dei nomi.

 Francesco Cataluccio
Vado a vedere se di là e meglio: quasi un breviario mitteleuropeo

pp. 424, €15
Sellerio, 2010

Giudizio: 3/5.

Nico Naldini, Idillio trevigiano

Non è una città di pietre squadrate, monotona e fredda, ma intrecciata alla mobile e cangiante filigrana d’acqua, con smeraldi interposti dovunque d’alberi e di giardini, convince d’essere piuttosto un parco d’incantesimi.

Pubblicazione che accosta con grande eleganza editoriale brani selezionati dello scrittore trevigiano Giovanni Comisso alle fotografie tanto del Fondo Giuseppe Mazzotti quanto dello stesso Fondo Comisso-FAST (Fondo Archivio Storico Trevigiano).
Entrambe le fonti restituiscono nel dettaglio un tempo in cui la città vecchia era ancora viva, e non una vetrina svuotata da vent’anni di desertificazione leghista.
Comisso era un autentico trevigiano, amante della cucina e della compagnia dotta ma bonaria; un uomo sedotto dalla bellezza e dalla poesia di ogni attimo e di ogni scorcio, capace di cogliere la profonda umanità di ciascun paesano incontrato fugacemente. Le sue parole lievi e sensibili descrivono con sapiente accuratezza una città di cui non sono mai stato fiero e che ho imparato ad amare solo attraverso occhi altrui.
Il volume del resto non è dedicato alla sola Treviso ma a tutti i luoghi della Marca cari a Comisso: il Piave, Asolo, i colli, la Marca orientale e Zero Branco, dove lo scrittore aveva la sua casa di campagna. E, come i pittori della scuola veneta più volte citati, lo scrittore evoca con poche e toccanti pennellate la laboriosità contadina e mercantile, le bellezze naturali, e tutti i minuziosi particolari che hanno ispirato tanto la letteratura quanto la pittura delle nostre terre.
Ogni singolo brano meriterebbe d’essere citato; per ragioni personali non posso fare a meno di riportare la descrizione del Montello “simile a un’enorme balena arenata”.

Idillio trevigiano
testi di Giovanni Comisso, fotografie del Fondo Giuseppe Mazzotti e del Fondo Comisso-FAST, a cura di Nico Naldini
pp. 96
Veneto Comunicazione, 2008

Giudizio: 4/5.